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mercoledì 4 luglio 2018

PIANO TATTICO di Emilio Smunti (2018)




Piano tattico

“tu hai bisogno essenziale di uno zar
e l’Europa
può davvero                               Dio denaro
accontentarti”
ti diranno a denti stretti che il piano tattico è passato
di moda da tempo
ti rideranno dietro, stratega
                                                 ragionevolmente
ma questo ed altro per dire STOP
non c’è più posto per tutto                il troppo                          che ho visto


la guerra sempre altrove ma grondante
da ogni angolo di strada quotidiana
i pianti ondosi sfranti in alto mare
riecheggiare confusi sullo sfondo
-TU solo a braccare sfrenato, occhi chini di sangue senza posa, entrate destinate a non durare-
il veleno serpeggiare
sotterraneo persistente
la colpa impotente eppure pungolo
sottopelle

“devi capire che la coscienza
è roba per vecchi avvizziti sotto sale”
ma ci sei dentro; da sempre vuoi tradire l’intelletto sospendere il giudizio lasciarti trascinare a marciare marcire gridare intonare antichi cori consumare ancora una volta vecchi testi stantii striscioni consunti a perdere sociale
con stile.

Del resto non c’è verso
di sanare il tuo bilancio.

Emilio Smunti,2018

venerdì 7 ottobre 2016

EMILIO SMUNTI, on the road again!

Stay alert! Ecco di Emilio Smunti, flaneur e osservatore di realtà liminali, due nuove poesie:


CROLLO DI IMPERO

Sopravvissuti
                               -quasi-
intatti alla notte
le occhiaie di nero
sentirsi davvero
da crollo di impero:
l’acre nell’aria a occludere crudele
le vie respiratorie
diaframma freddato
le fiamme a fanfara procedere ostinate
divampate impietose d’ogni punto cardinale
il tremare a tradimento della terra
la ferita roboante a sventrare fondamenta
lo sgomento delle viscere in fermento del suolo
e le armate dei barbari a corrompere il confine
lo spurgo straniero a singhiozzo d’eterna terza guerra mondiale
li vedi rincasare
ultima corsa unica donna
bianca
nella calca meticcia direzione riposo Prenestina
la circolare carica di rughe stanche fibre spossate tessuti neurali svuotati

di fine giornata lavorativa.

E. S. (2016)


CONSOLARE                                                              
         
Camminare per ore di via consolare
TUA             quotidiana consolazione
propulsivo procedere in preghiera
muso a terra mente attiva
di arterie a raggiera
stanotte Prenestina
9 km di Nomentana la tua mattina
sempre dritto di strada maestra
non puoi sbagliare
onorare
ogni crepa più lurida del terreno che senti di amare
imbruttire a brandelli ogni sguardo che intercetti
per errore
polpaccio tallone la leva vitale
la frequenza cardiaca che sale
il calore cinetico tuo unico abbraccio
Procrastinare
la prospettiva atroce minacciosa


di rincasare.

E.S. (2016)

sabato 13 agosto 2016

SDRAIARSI SFRANTO D' AGOSTO di Emilio Smunti (2016)



Sdraiarsi sfranto d'agosto


Sdraiarsi
a inalare d’idrocarburi l’aria densa solare di terrazzo condominiale
dominare
dall’alto superfici sconfinate di spazio cittadino svuotato d’estate
contemplare
tra canne fumarie
il grigio a regresso infinito di saracinesca stanca serrata
allinearsi eterno d’alluminio
il blu reiterato a esercito dei parcheggi desolati sotto casa
desiderare d’essere soli
distinguere di sguardo a perdifiato fino al limine distante dei Castelli
fino alle sagome di San Giovanni
ricordare luoghi altri talvolta disposti agli antipodi del mondo
odiare di dolce sentirsi avvinghiati
 cullati a cantilena tra i cassoni dell’acqua
gli escrementi secchi di cornacchia i residui luridi evidenti di vento
il ronzio ipnotico di condizionatore
percepirsi eroe sfranto da memorie militanti
consci lasciarsi ingannare dal prisma iridescente d’idioma di madre
sperare soltanto che il mese non passi
che il minutaggio spietato sia clemente

attendere sonnolenti spazio-tempo sospeso

le armate roboanti di settembre.


Emilio Smunti,2016

giovedì 15 ottobre 2015

EMILIO (SMUNTI) torna in fabbrica con "Omicida quotidiano" (2015)

                                                                    
                                                                    








                                   

 Omicida quotidiano                       


È il benzopirene
che a posta ti spia
ti appesta ti spreme
                                 dal profondo
e avviene
che non puoi scorgerlo ma preme
e opprime
il polmone che spera di respiro
(non si sa per quante ore)
-la prostata prostrata-
È il benzopirene
(che non ti spara ma)
ti spolpa
ti spella i tessuti
li strappa ne espelle
la sopravvivenza
nello spazio sparuto
---> Spaurito!
Nello spazio a te avverso
traditore
omicida –che ti attacca e ti uccide
d’una tacca ogni giorno-
nello spazio contrario
contaminato
nemico spietato
nello spazio che ami
-specie quando t’indigni da divano
con la birra in mano-
lo spazio quotidiano
che ami-chiami

casa.

(Emilio Smunti, 2015)

giovedì 8 ottobre 2015

EMILIO (SMUNTI), macabro-chimico (2015)



Codex chimico


Quassù
-il corpo stanco ad azzimare-
ti istigano a raddrizzare la colonna vertebrale.

Il fianco da allineare
Il culo da schiacciare di sacro compresso
le scapole costrette a retrovertere straziante

ti dicono
di esporre il petto al mondo
di prenderlo di sterno
di addurre a dolore il dorsale

non pensano
che la terra sia più paga d’interesse.

Quassù
t’intimano d’ affrettarti in finale di fila
ti dicono
di affannarti alla ASL più vicina;
per l’attesa d’ore strenua da ricetta
necessaria
per il carico settimanale salvifico
di composti in plico cartonato:
l’accumulo dolce in dispensa delle molecole poi calde in gola
d’esofago felice                    -deglutisci
duloxetina ziprasidone benzodiazepine
ringrazia
                 “dacci oggi”
Compresse quotidiane a correggere il plasma
proteggere flussi assonali dispersi
A spada tratta!
l’atorvastatina di rito

---> Sopravvivi
Domani
E ancora
Per sempre
Qualche altra ora lustro in più
                      “Non ancora, non voglio”
Un altro po’
Resisti
Procedi
Insisti omeostasi
perduta, però…
Continuare a vedere
Che cosa forse si cela più in là di un mese di due…
Keep on existing
Just go and don’t think ingerisci
---> Sopravvivi
Respira resisti insisti ad esistere di grave corporeo c’è il mondo d’intorno
Ma intanto
Soltanto i geni sapranno chi sei.

Emilio Smunti, 2015.

domenica 14 giugno 2015

"Discesa in discarica" di Emilio SMUNTI (2015)

"Lo Smunti si finge colto, nel tentativo -vano- di darsi un tono." (double L)



DISCESA IN DISCARICA

Varcato
-tu solo-
l’antro segreto del rigurgito urbano
affondi le suole di melma bruna
desto;
le selve scure di materia a indicarti il cammino.

Biogas candidi molli a mezz’aria, gli oggetti ora neri del giorno che fu:
le vette e i crinali di scarti accatastati
pneumatici patogeni
carcasse di scoria
vapori tossici come spuma
a corrompere l’aria  -la gola fatica
(occluso il respiro, le corde vocali, contratte di acre, non sanno vibrare)
il cielo al carbonio a frustare le tempie
le lacrime acide di occhi appannati:
hai paura.
Sed nunc animis opus, nunc pectore firmo: ricorda.

Le suole d’un tratto sul ciglio putrido
d’acqua torbida di palude castana.
Le masse gassose che gonfie ti avvolgono
occludono gli occhi nascondono sponde
insistenti ti intronano
d’un lamento di morte.
Poi gli occhi fiammeggianti di rom imberbe
-chino sul gorgo in cerca di materia:
meglio se plastica, meglio se rame-
a indicarti con un cenno la via.
Latrati rintronanti oltre riva: hai paura.
Sed nunc animis opus, nunc pectore firmo, procedi...

Lande oscure di onde brune senza fine:
tre fauci sanguigne di cane randagio
il liquame che stilla
la terra digrada…
i germi ti insinuano
le blatte ti attorniano
le suole svaniscono inghiottite di fumi
che paiono ombre di sagome umane
(il cranio che preme)
d’un tratto ti pare
di vedere tuo padre.
Non hai paura:
e mentre gli ossidi ormai dolci ti cullano a sopore
mentre i sensi annichiliscono sfiancati dal fetore
vedi i cumuli gassosi comporsi
combinarsi dipanarsi
poi disporsi
in immagini di corpi futuri.

Uomini altri armonici
di ritrovati dispersi equilibri
di suoli di acque di terra
di tregua
d’identità di me con natura;
di nuovo insinuarsi nell’ecosistema
di percorsi digestivi emancipati d’acido
di arterie depurate
di energia che riemerge risorge si trasmuta
si accresce si propaga si moltiplica a orbitale.
Vedi
(huc geminas nunc flecte acies):
l’antico spaccio di Porte di Roma piegarsi gravido di rigoglio
gli acri a coltura entro il Raccordo
Vedi
daini placidi solcare in sciami
le terre floride di fu Prenestina
-Tor Sapienza troneggiare sui rami.
Ora volgi qui gli occhi e riconosci
a stento
i ponti arcaici di Laurentino 38
le prische segrete di Centocelle
i vichi deserti d’Alessandrino
la Flaminia fluire infinita
le acque ora chiare un tempo putride d’Aniene.

Abrupte -raschiare di ruspe di lontano:
d’un tratto di nuovo non vedi null’altro

che le suole pesanti di mota.

(©emiliosmunti2015)

sabato 14 febbraio 2015

EMILIO SMUNTI, o il vecchio testo ripescato: "Romae mori (di quartiere)"

Romae mori (di quartiere) 

Trentuno Luglio di un anno irrilevante, non dissimile da altri
ore 12.35
 in quel dominio di spazio cittadino
compreso tra
ospedale disseminato a tentacoli
cimitero incrostato a marmo
viuzza cupa da sveltina svoltata (o pagata, comunque in auto)
-il mio:


-"Scusi, per la camera mortuaria?"
-"L'obitorio, dice?"
-"Certamente, sì!"
-"Sempre dritto e poi a sinistra, non può sbagliare!"
-"Grazie grazie, arrivederci"
-"Buona giornata".


Dritti a casa.
Poi un sentore di macabro a ronzio,
 qualcosa di assurdo e straniante in gola,
 scrollato di dosso solo a sera

con la spugna ruvida della doccia seria. '

(EmilioSmunti2013)


giovedì 30 ottobre 2014

SMUNTI E L'AMORE: "A ragionar d'amore..."(2013)

Per gli Smunti-fan in attesa di Status Australi che non pervengono:



A ragionar d'amore
sul 2 notturno
intorno alle 3
(a squarciagola):
-Ma se stavi ancora con Jacopo, non dovevi uscire con Andrea...spezzare il cuore a Jacopo, questo no!
-Ma con Andrea..bè, in amicizia..
-Però c'èra o non c'era un interesse, ammetti?
-Sì, c'era..un po'..e anche Jacopo, mi interessa, mi piace..un po'.
-Un po'?! Ma l'amore è assoluto, integrale, devo insegnarti tutto!
Forte accento pugliese, inconfondibile il vocalismo;
i jeans attillati a strizzare gli stinchi.
L'uno bruno, l'altro biondo.

Se siete dei nostalgici dei cenacoli stilnovisti, lasciate a casa la macchina, prendete il notturno.

venerdì 18 gennaio 2013

RASK 5 di Emilio Smunti (ultima puntata!!!)


Il sabato seguente -voto fiacco alle spalle- si presentò solo, con la casacca indosso. Troppo larga per lui, navigava profugo tra le solite facce. Cercò a lungo Linda, o almeno Dalia, e si rese conto di non poter salutare nessuno; era in grado di associare un cognome a ogni camicia, ma si muoveva muto e procedeva impacciato. Carpì qualche stralcio di dialogo da cocktail: nomi di gruppi e di nuovi album, troppo avanzato per lui, novellino. Le canzoni note procedevano in preghiera. Alla fine s'imbattè per caso in Linda, che conversava già brilla con un brit-guy molto pallido e biondiccio: parlavano di moda, di marche di scarpe e stilisti di nicchia, e Rask d'improvviso tornò a prischi malori. La nausea lo avvinse, proprio quando il fotografo si apprestava a schivarlo.
Provò a saltellare noncurante nella folla, ma si vergognò di essere solo e troppo alto, e finì per andar via. Soltanto alle tre, Dio mio che smacco!, ben prima dell'ora rituale di sgombero, le cinque. A casa trovò il letto più soffice che mai.
Linda, tuttavia, si dimostrò comprensiva e lo perdonò. “Lo so, i primi tempi è difficile rispettare l'impegno, capisco. Ma vedrai, col tempo..”. Dovettero trascorrere altre due settimane -ahimé: febbre e  un altro esonero, Linda sempre più insistente- prima di materializzarsi nuovamente in loco. Lei al volante con capelli neri striati di blu, accanto fedele Dalia ormai bionda, la sosta di rito per ciance e bicchierini. Si sentiva pronto a riprovare, poteva, era il momento, doveva..
Dovette pagare prezzo intero; neppure più la riduzione che un tempo Linda gli procacciava, gentile. “Non ho potuto, non vieni da molto”.  A Rask sembrava di mancare da meno di un mese, ma in quel microcosmo da notte extensa la concezione del tempo doveva essere altra.
Era trepidante: la camicia a quadri era della taglia giusta, poteva andare fiero del suo busto esiguo, e i capelli lasciati crescere se li era addirittura sistemati da un lato. Desiderava la folla, quei corpi caldi e sudati e ben noti, la solita scaletta. La ripassava mentalmente. Conosceva le melodie, a volte le parole, tempo due sabati, tre sabati, e..
Eccolo entrare. I due dj, con foulard a pois rossi, salutarono cerimoniosamente Linda senza degnarlo di uno sguardo: regolare. Il musicista folk si avvicinò senza smettere di rivolgergli le spalle. Il solito brit-guy si complimentò con Linda per il nuovo colore. La musica partì, e neppure gli sguardi intorno, sulla pista, sembrarono riconoscerlo. Non una smorfia muta, non un sorriso di quelli alcoolici di un tempo. Mancava da troppe settimane, nessuno pareva intenzionato allo sforzo madornale di ricordarlo. Finì per annoiarsi, saltellare gli risultò penoso.
Tornato da Linda, per la prima volta tentò di inserirsi in uno di quei misteriosi scambi dialogici da tavolino e cocktail: benché la musica fosse ad altissimo volume, lei e gli altri sembravano comunicare. Stavano criticando aspramente i pessimi dj della serata del venerdì. I nemici. Tutta un'altra storia. Proponevano lo stesso genere di musica, l'abbigliamento annesso era speculare -”ma che dici, Dalia, molto meno stile! Vuoi mettere?”- e tuttavia erano di gran lunga inferiori. Nessuno di loro ci avrebbe mai messo piede. “Ma lo sai che l'altro giorno Lidia è stata vista lì, il venerdì? E stasera si presenta qui come se nulla fosse!”. “No! Ma dai! Che vergogna!”. “Che poi hanno insultato online la nostra serata l'altro giorno: infantili!”. “Ma se quei due dj oramai ci hanno più di quaranta anni..”. “Appunto, che vergogna! Disonore!”. “Peraltro ci hanno copiato la scaletta musicale, para para mi hanno detto..”. “Io di certo non ci andrò mai”.
Si sentì avvizzire, fiaccato dall'ascolto faticoso e inutile. Bere era l'unica, si diresse al bancone, benché un sentore di nausea antica cominciasse a prudergli nello stomaco. In fila per ordinare odiò tutti e maledisse ogni chioma lucida. Si risollevò al vedere Linda raggiungerlo. Era più bella che mai, profumata, così spigliata da non sembrare vera. Era contento di trovarsi solo con lei, sorseggiarono insieme dal bicchiere al bancone. Cominciarono a parlare a lungo come ai vecchi tempi; lei era visibilmente alticcia, eppure Rask non rinunciò ad approfittare del momento raro di intimità per parlarle della sua cara teoria dei metalli. “Sai, il bello è nel manovrarla la materia, esserne compagni e artefici. Non tanto nell'imitarla. Accarezzare il mondo, la terra, e vederlo fremere, tremare. Devi sapere, i metalli..”. Lei annuiva, e le pupille dilatate lo fissavano attonite. Poteva sembrare rapita. “Lo è, l'ho convinta, mi capisce. Forse..”.
Ma era solo gonfia di alcool etilico. Si dispersero nella folla. Rask s'imbattè per caso nel solito bassista folk, che lo vide e abbassò lo sguardo; inciampò negli stivali alti della dj Dalia che, lontana da Linda, neppure gli sorrise. Si trovò pressato da masse odorose di capelli brillanti, arricciati con ferri o lisciati di piastre, si sentì calpestare da tacchi a spillo crudeli, la musica torva nel suo essere nota. Gli abiti usati emanavano fetore, il sudore eccessivo lo soffriva nell'aria. Qualcuno gli versò della birra addosso, noncurante e senza scuse. Si percepiva, peraltro, più alto del solito, dominante e ricurvo sulla massa lontana, stagliato su torre a guardar di vedetta. Ed ecco, d'un tratto li vide: Linda e il brit-guy avvinghiati con arte.
Se ne andò di corsa, e ben prima delle cinque. Lo specchio dell'ascensore gli restituì ghignante un'immagine di camicia sgualcita e occhiaie bluastre. Odiò l'ascensore, la porta, l'ingresso. L'intera casa sembrò ridergli in faccia con sprezzo. Persino nell'ambiente amicale della camera da letto le provette e i minerali lo ammonirono severi. Staccò il telefono, il citofono, sabotò il campanello, il cavo adsl lo strappò senza pietà. La nausea eclissata, desiderava solo dormire. Le coperte lo accolsero benefiche, il calore lo avvinse, lo vinse ed in breve. Non si preoccupò della madre, che lo avrebbe cercato. Chissà, forse Aldo avrebbe provato a chiamarlo. Il dovere d'aprire quei libri, domenicali d'esonero di lunedì, non lo trattenne neppure un momento: senza aver impostato alcuna sveglia, aveva spento con foga il cellulare.
Non mangiò, non bevve, dormì. Sognò, è chiaro, come accade a tutti quasi tutte le notti. Lo ritrovò la madre sei giorni dopo: senza vita, immobile, sembrava di metallo.
(Emilio Smunti,2012)

giovedì 10 gennaio 2013

RASK (4) di Emilio Smunti


Non poté fare a meno di dormire due giornate integrali, dopo quella notte insonne. Perse tutte le lezioni del lunedì, laboratorio compreso; il martedì pomeriggio le provette lo guardarono di sguincio. Nel frattempo, lo avvertì Linda per telefono, erano state pubblicate online le foto della serata, quelle del fotografo ufficiale; la voce dell'amica squillava fremente, e Rask stentò a comprendere  le ragioni di tanta eccitazione. “Devi vederle!”. Connettendosi, fiaccamente, la sera, si preparò ad esaminare quei prodigi in digitale: una carrellata di immagini truci, faccioni pressati di folla e di alcool, riposava soddisfatta su pagina web. Anticipata -poteva vederlo- da messaggi incalzanti delle ore precedenti: “allora, le foto?”, “daje con le foto”, “vogliamo le foto”; un'ansia da non credersi. Seguita -visibile anche questo- da commenti superflui d'ogni risma e natura. Eccoli, i veri partecipanti: sorridenti o meno, avevano garanzia di esserci davvero stati. Rask sapeva di esserci stato, lo ricordava. Che bisogno c'era di averne conferma? Ricordava, poteva ricostruire tutto, i particolari..quasi tutto.  Forse l'alcool poteva averlo illuso, confuso, forse rammentava male, magari dormiva... In effetti, lui, Rask, non figurava. Indossare un magliettone nero accanto a Linda equivaleva a non essere un artista accanto ad Aldo. Peggio, anzi, senza dubbio.
Tuttavia vi tornò. Linda ne fu contenta, raggiante: gli prestò una camicia a quadri del fratello e gli suggerì di lavarsi i capelli. Seguite le istruzioni, l'amica lo venne a prendere con capelli rosso fuoco; non se ne stupì. Si stupì invece, una volta giunti al locale, di riconoscere tutte le facce che gli capitarono davanti -trucco o foulard diverso, ma di fatto le stesse- tutte, o quasi tutte, le canzoni che lo fecero saltellare senza ragione. Stupefacente, ma rassicurante. Bevve molto, ballò -parlare non era necessario- e non un impulso dormiente si presentò al suo sistema nervoso.
Quelle canzoni -e facce annesse- cominciarono a vorticargli intorno benigne: quei motivetti spesso facili gli riecheggiavano amichevoli in testa, e lo tenevano sveglio. Prese a sentirsi vivo, o quasi. In palestra, una mattina, scambiò un commento sul tempo con un energumeno sui trenta.
Non aveva ancora accesso al giro ufficiale dei saluti, ma riconosceva ogni volto, ogni naso, ogni scelta cromatica di smalto e di belletto. Poteva controllare online -le foto caricate a documentare ogni sabato sera- carpire dettagli e fissare nomi propri. Iniziava a orientarsi, a tentoni, nell'intrico frondoso di quei nomi a cantilena. La tavola degli elementi gli appariva scialba, al confronto. Ancora non compariva nelle foto ufficiali -notò però quello che era probabilmente un suo polso, una volta, in un angolo- ma si lasciò trascinare da Linda in una bottega di abiti usati. Persino lì si imbatterono in alcune solite facce -forse solo lievemente deformi, alla luce del giorno- e finì per buttar via banconote in una casacca larga molto Sixties. Incoraggiato da Linda, naturale. Lei uscì fuori con tre borse lerce e due vestiti putridi, com'era ovvio, con quei “prezzi convenienti!”. Rask si chiedeva spesso da dove le arrivassero quegli eserciti di denaro da buttare al macero: ogni volta che provava a chiamarla la sorprendeva in preda a cure di estetiste esperte o di artisti della chioma. “Ma sai, le altre ci spendono molto di più”. Toccava essere perfetti.
La perfezione era indispensabile per ascoltare il sabato quelle canzoni a rotazione, per prepararsi a fissare nei bulbi quei volti fiaccati da acquisti in vestiario. A volte rimpiangeva le scarpe sdrucite in voga sotto cassa. Rimpiangeva il terriccio fresco e le pietre tanto amate: magmatiche o sedimentarie, che importa? Qui solo pigmenti di smalto. Gli mancava la materia, la natura, il metallo: e ricordò d'un tratto il suo esonero di fisica. Doveva studiare -ormai riusciva a non dormire, quasi- e presentarsi lunedì mattina ore 9: questo sabato non sarebbe potuto esserci. Linda lo criticò e gli attaccò il telefono in faccia, con rabbia: “non ti comporti seriamente, allora; vieni almeno per un'oretta, sù”. Rask non seppe cogliere la gravità della situazione.
(Emilio Smunti2012)
- CONTINUA-

venerdì 7 dicembre 2012

RASK (1) di Emilio Smunti

"Rask",  il testo ancor più tristo di E.Smunti 2011
                                                                                                                                  Una vita a disposizione -di quelle stirate e pulite, non tirate a lucido, intendiamoci, ma neppure rattoppate e logore, ecco- una vita ordinaria a disposizione -normale q.b.- e nessuna capacità di prenderla in mano. L'unica: starsene sul letto con arti pesanti e cervello rappreso, chiudere gli occhi, assopirsi, cullarsi, riaprirli, ripiombare nel sonno. Il corpo di pietra invecchiato precoce, le occhiaie di viola a corrompere i bulbi.
Le rare escursioni nel mondo esterno si risolvevano puntualmente in fiotti violenti di nausea strisciante: da farsi verdi in viso e rigettare le interiora tutte. Sempre più rare, perciò; eccezionali.
Le ore di sonno di gran lunga superiori a quelle di veglia dal punto di vista qualitativo: perché discostarsene, allora? Era giunto a questa conclusione dopo anni -decenni: circa due- di tentativi dolorosi e regolarmente falliti. Aveva tentato, appunto, di far capolino nei contesti più disparati, di comparire in ambienti a elevata distanza strutturale, di materializzarsi in scenari sempre nuovi e ulteriori, ma ogni volta si era ritrovato schiacciato e mutilato, ridotto a creatura angolare, silente, ripiegato sullo stomaco bruciante. Nessun'ambiente era in grado di accoglierlo, non uno. Anzi, quello doveva essere il suo ambiente: mura domestiche e sopore dolce. Testa pesante e porosa, che sprofonda e tuttavia fluttua, pietra pomice di dormiveglia perpetuo.
Anni prima si era messo in testa di frequentare l'università, che idea. La testa bassa e gli occhi appannati, comprensibili nell'arco delle prime settimane, si erano poi imposti a norma perentoria, infine abitudine cullante. Gli altri lo evitavano con cura, complice forse il ridicolo abbigliamento rimastogli addosso dal fu liceo; lui sempre solo e gli altri sempre in gruppo: gli schieramenti fissati e semplici. Se arrivava in anticipo, temporeggiare soli accanto al gruppo vociante diveniva impresa da faccia contratta; arrivare tardi, poi, era anche peggio: penetrare in aula con passo incerto, la testa a terra e l'aspetto impietrito, articolare “è libero?” con faccia da cazzo; in perfetto orario, poi, non arrivava mai.
In occasione degli esami semestrali, serpeggiava solidarietà tangibile: di norma  percentuale irrisoria della vita emotiva studentesca, il sentimento in gioco schizzava d'un tratto da falde profonde, dilagava e impregnava le pareti. Allora si parlava da una panca d'attesa all'altra, si scambiavano appunti, s'augurava il vecchio “In bocca..”. Man mano che trascorrevano le ore il dialogo si discostava dai contenuti dell'esame: professori, corsi, alloggi, futuro, i soldi, il caldo, l'estate che incalza. Oppure il freddo, quanto manca alla laurea, l'università non funziona, l'erasmus lo farò. Ore d'attesa da avvizzire e morire, lui solo, sulla panca, con il cranio tra le mani. Benché ascoltasse a tratti con interesse i molli scambi conversazionali di quegli altri, intervenire o -see!- essere interpellato era del tutto escluso, non previsto, neppure alla lontana. Alla larga, quello è strano, ha il naso lungo, che s'impicchi. Un po' di nausea, ma in fondo ne godeva.
Anni prima  ancora si era messo a frequentare serate fosche da Babilonia urbana. La musica martellante da casse scure lo coinvolgeva senza ragione, i prezzi – cinque euro, a volte tre, “sottoscrizione, daje!” alcune sere- lo avevano pervaso d'un sentore illusorio di accoglienza democratica, l'abbigliamento da skater e cappuccio calato se l'era sentito naturalmente indosso: ed eccolo a varcare soglie di vecchie rimesse occupate, scuole cadenti ed ex-cinodromi nebbiosi. Gli ambienti cupi e ferrosi lo rassicuravano, i tubi metallici lo avvolgevano a nido e i capanni fangosi gli sapevano di gioco; la gente intorno, le trecce ovunque e i lobi sformati, le scarpe enormi e le spalle ricurve, la stessa gente agonizzante al mattino, gli parevano disposti a grande specchio riflettente. Ed eccolo gioire, ambire, imitare..
Ma quel fulgore da riconoscimento, da entusiasmo da inizi, di inizio serata, si era velocemente raggrinzito e sfilacciato dal di dentro. A pelle sopravviveva, appena arrivati in loco -il fango a terra, gli sguardi biechi- ma si esauriva allo scoccare dell'ora. Mezz'ora, poi. Si trattava, alla fin fine, di andare ad agitarsi tra gente sconosciuta, in sedi turpi e repellenti, tra bagni chimici di plastica blu e folla assordante di casse stordenti. “Emmee ddìì, 'nfetamineee”: mercati notturni di merci malate, che scavano e corrodono, plasmano e forgiano, e pungono a fondo. Non vedeva l'ora di fuggire, a quel punto: si sentiva un intruso -idiota- tra idioti integrati. E poi calca, sudore, spazio nullo. A quel punto, non si faceva altro che uscire a far festa senza averne voglia, e con gente dubbia, con cui il sorriso era sempre da forzare. Infine, alle solite: sagome stramazzate al suolo, all'alba, a mo' di creaturine rantolanti di penombra. Anche lui distrutto, ma troppo intruso per esserlo davvero.
La felpa identitaria e il sopracciglio destro inanellato persistevano eterni a carezzare un corpo ormai adulto; monito dal passato, d'accordo, ma soprattutto conservatorismo pigro. In ultima analisi, null'altro che travestimento odioso da tossicomane vecchia scuola: controproducente.
(Emilio Smunti, 2011)
-CONTINUA-

lunedì 22 ottobre 2012

MANIPOLO (8) di Emilio Smunti... ultima puntata!!

 "Eh-ehm..dentro, ragazzi!". Il Coordinatore, appena arrivato, li richiamò al dovere. Una volta dentro, eccitata e raggiante,  depose ufficialmente con passione ed entusiasmo -entusiamo, proprio lei, pazzesco. "Tutto secondo il regolamento, sembra, bene; parteciperai come leader organizzativo all'Intervento di dopodomani" aveva replicato il Coordinatore agitando l'acconciatura castano ramato "Parliamone in dettaglio, per favore. Si tratta di sequestrare un'importante truccatrice, il Manipolo ha bisogno di fondi. Mesiota ci ha direttamente affidato il compito, è fondamentale che tutto si svolga con precisione..so che darai il meglio". Anche nella cellula 31 si era distinta come diligente, ahimé.
Ritornò a casa con Gustav annesso: parlarono animatamente del sequestro in vista per tutto il tragitto. Era sempre in apprensione all'idea di far vedere la propria stanza per la prima volta: aveva una quantità inaudita e superflua di vestiti e lingerie provocante, se ne sarebbe vergognata. Tirato sù il letto velocemente mentre lui aspirava roba  in cucina, si mise a preparare un risotto al curry, di quelli che le piaceva preparare, convinta che il girare il mestolo potesse irrobustire quel braccio esile da Biafra che le era toccato in sorte. "Ci vorrà del tempo, però..". "Non ti preoccupare, tanto non è tardi" rispose Gustav "Piuttosto, posso usare nel frattempo il tuo pc?". "Prego, è un po' malconcio ma funziona, più o meno". E tlan, tlan, tlan, il mestolo che gira. Aggiungere acqua, si rapprende il riso, altra acqua. E tlan tlan tlan, lavoro di bicipite -certo! "Questo sequestro ci è stato affidato direttamente da Mesiota, dobbiamo agire bene, è roba grossa" recitò lui. E tlan tlan tlan, chicchi che girano, vorticano, duri. "Devi essere orgogliosa di avere il coordinamento dell'operazione" aggiunse. "Già, sono un po' preoccupata. Grande responsabilità, e..". "Devi solo prepararti bene, il grosso del lavoro sarà dell'intera cellula, saremo tutti insieme". "Tutti insieme, sì". Muoveva il mestolo di legno, e un sentore come di crudo e maligno le salì all'improvviso nel petto. Come un soffocare, chissà, forse il tempo, la pioggia.."Sarà una cosa grande, ne sono certo" Tlan tlan tlan: il riso che gira, si morde la coda. "Vedo un po' su Internet cosa c'è in giro stasera: così magari ci buttiamo in un centro sociale e distribuiamo il Credo in giro. Vediamo...". Fissava il riso e quel sentore cresceva, forse il tempo, la pressione, la stanchezza, agitazione, la colpa. "Forse non me la sento stasera..". Buttarsi in un centro sociale era ipoteca certa di sfascio quindicenne: sarebbe finita a bocce a pochi soldi di vino cattivo, e non se la sentiva, non quella sera, si sentiva svenire. Tlan tlan tlan: mestolo veloce. Lui sembrò non aver sentito: "Vediamo..Qui forse c'è una serata interessante, bisogna vedere se è gratis o ci fanno pagare, sti dannati". Fissava il riso giallo di curry, un nodo alla gola, la colpa, Dio mio, ma no è il tempo, la meteoropatia, io lo so, è storia antica. "Vediamo un po'...la cronaca locale di solito riporta i concerti del giorno..vediamo..toh: guarda qui!". Le rivolse raggiante lo schermo del pc, un portatile, claro, vecchio e rimediato. Sulla pagina web la notizia d'ultim'ora, a caratteri non piccoli, e in grassetto chiaro e nero: "Bruciati vivi due ragazzi". "Trovati morti un ragazzo e una ragazza in uno studio fotografico del centro. L'incendio è doloso": questo il sottotitolo. Nel frattempo -intrattanta, s'intend, che el ris coseva- aveva iniziato a piovere, e tutt'a un tratto -"è pronto!"- si sentì soddisfatta.

 (Emilio Smunti 2011)


giovedì 18 ottobre 2012

MANIPOLO (7) di Emilio Smunti


 La prima volta che aveva spaccato la vetrina di un parrucchiere era stata epica, fantastica. Con una mazza di legno, dopo che Gustav aveva scassinato con destrezza la saracinesca, lui sapeva farlo. Lui l'aveva spinta a fuggire, era scattato l'allarme, ma lei era rimasta come impietrita per un attimo. Quei tagli orribili pagati a cinquantoni le erano rimasti sempre sul gozzo; le chiacchiere superflue rivolte per mestiere le avevano sempre attivato bile nera. Le ricrescite nere delle amiche con tinta -rosso, biondo, oibò, che figo!- le aveva sempre invidiate e disprezzate. Lei avrebbe voluto, forse, anche lì avrebbe voluto, ma...Gustav l'aveva presa per il braccio ed erano corsi via ridendo. Avevano bevuto tanto quella sera, pisciato insieme in giro e consegnato cartoncini del Credo, così, a tirar via. Sempre odiato le cose a tirar via, non metodiche, non precise, sguaiate, alla carlona; ma era con Gustav.
Il mondo sarebbe cambiato davvero una buona volta? Non sapeva, non arrischiava. Non sapeva ostentare la stessa sicurezza di Gustav: "La situazione sta cambiando, ci siamo"; "La svolta è vicina, la stiamo rendendo possibile noi, capisci?". Neanche qui capiva: sperava, desiderava, voleva -il serpente lo sentiva sempre sulla pelle, stringerla e morderla, circondarla maligno- ma questa sicurezza le pareva follia. Inammissibile, insomma, "Ma come fai a dirlo? Come si fa a essere così certi, io non...basta aver letto il manuale del liceo di filosofia per sapere che non c'è mai nulla di assoluto". "Vedrai, vedrai: non leggi che i parrucchieri chiudono? Mesiota non sarebbe contenta di quello che dici".
Gustav l'aveva portata a conoscere Mesiota, in un grande raduno notturno del Manipolo, settimane prima. Lei aveva notato che gli brillavano gli occhi, quando aveva comunicato l'appuntamento a tutta la cellula 31. Anche in quel caso era partita da casa scettica, la smorfia del dubbio stampata in viso e il Dio Disagio a tenerle la mano. Ma una volta lì -tutti tuttissimi con quella "M"- aveva provato lei stessa -glip- entusiasmo. Si era sentita parte di un Tutto, di qualcosa, il fermento, la voce-velluto di Mesiota la grande, e poi la rabbia sopita di anni. Avevano festeggiato e premiato la cellula 67, che aveva portato a termine l'omicidio di una modella tra le più in voga.
Sollevò lo sguardo dal pavimento lercio della Metro: solo due fermate. Una manciata di minuti, e scendeva le scale della sala prove, ormai familiari. A fine Intervento bisognava sempre rilasciare una deposizione dettagliata in cellula, era la regola. Perché il Manipolo aveva un regolamento rigido e razionale, tuttavia non scritto; comunicato oralmente, e si trovò a ricordare di tutte quelle volte che aveva preso appunti, come all'università, riportando schematicamente su taccuino quel che diceva in proposito il Coordinatore. Trovò in sede Adria, uno dei due minorenni, e anche Gustav: "Allora! Dicci tutto: ce l'hai fatta? Non avrai perso tempo a farti bella come un'idiota?" "Ehm..no no". In effetti aveva voluto entrare nella parte, una volta nella vita, aveva voluto, per gioco, per quella vecchia attrazione morbosa che.."Deve essere stato terribile. Ma è una delle pratiche più efficaci  fingersi modelli e poi..quindi, tutto liscio? Imprevisti?". "Terribile sì, Gustav, ma tutto liscio, vi devo raccontare". "Dobbiamo aspettare che arrivi il Coordinatore, usciamo un attimo".
Uscirono, lei e Gustav. Lui si congratulò con lei, per aver ucciso due "dannati operai del Bello", finalmente. Per lui non era nuova la cosa, aveva già ucciso in diversi Interventi. Amava la violenza, lui, la trovava bella e necessaria. Le si avvicinò e la baciò a lungo. Fu contenta, lei, gli zigomi pungevano, il Dio Disagio la abbandonò dopo pochi minuti. Probabilmente faceva così con tutte, con molte, ma al momento non importava.
(Emilio Smunti 2011)
-CONTINUA-

lunedì 15 ottobre 2012

MANIPOLO (6) di Emilio Smunti

 Il campanello di rito, l'ingresso fresco e profumato di dolce, il tavolino della reception con i prodotti leviganti in offerta: la mattina dopo, forse le 10, si era presentata al solarium; in Loco X, com'erano soliti recitare i membri. Con lei anche la ragazza alta -Adria- e una delle due donne sui forse 60 -nome incerto: entrate a scaglioni, ognuna con le boccette d'alcool riposte nelle tasche e/o nel borsello. "Dunque..cera intera, no? Attendi un attimo, sistemiamo la cabina, ok?". Ingresso vuoto: svuotata la prima boccetta, con straordinaria tranquillità -se ne era stupita- complice forse la melodia rilassante che risuonava intorno insistente, un classico. Riviste di moda e pettegolezzo: ben intrise, toh; aveva cominciato a provarci gusto. Ma ecco che si era materializzato di fronte a lei un viso che conosceva, che tuttavia non riconosceva: i capelli nero corvino, il naso piccolo, la pelle oliva..."Hei, ma sei tu! Lavoro qui adesso, che mi racconti?" aveva articolato quella. Una delle poche estetiste, probabilmente l'unica, con cui si fosse mai trovata quasi bene a parlare, una nata nel suo stesso anno, stesso mese, non metteva a fuoco il nome, ma.."Allora che mi racconti?". Si era sentita rabbrividire: "Mah nulla di che, solita vita..ma quanto tempo!". Aveva sempre odiato i tentativi di ciancia delle estetiste, benché all'esterno tentasse di mostrare interesse a quanto dicevano, per semplice credo ideologico nella necessità del feedback. Perciò, come tutti, aveva ascoltato con bieca partecipazione quanto rivelavano a proposito delle loro vite, scocciature quotidiane, studi passati, ragazzi infami, progetti futuri. Del resto, aveva sempre odiato in misura molto maggiore che le si chiedesse qualcosa di lei: la sua vita, le sue scocciature, i suoi studi -Dio mio- i suoi ragazzi infami. Di gran lunga meglio ascoltare. Ma con quel viso, capelli corvini, c'era sempre stato una sorta di feeling inspiegabile, d'istinto. Anyway: il viso che conosceva si era alzato la maglietta all'improvviso, mostrandole un ventre pieno e rigonfio, stonante sul fisico magro. "Ma...". Le si era gelato il petto: quell'incurvamento fuori posto le era parso alieno, aberrante, un errore. "Dio mio, ha la mia stessa età, io.." aveva pensato, e recitato -ad alta voce, ahimé- un "Inquietante! Dio, non è possibile!". Solo dopo aveva realizzato che non è così che ci si rivolge a una quasi mamma, quanta rudezza, quanta assenza di tatto, imperdonabile, ignobile davvero, avrebbe dovuto pronunciare un "Che bello, complimenti!", esclamare un "Fantastico, sono contenta per te!", qualcosa del genere, di umano, caloroso -intollerabile, davvero, che figura- anche se di fatto stava probabilmente per ucciderli entrambi, madre a breve e feto x. Per buona sorte era stata richiamata al lavoro, la gestante: ingresso deserto, e via di nuovo con la distribuzione del liquido; questa volta, però, meno decisa, non più tranquilla, un senso di amaro.
Aveva visto le altre due del Manipolo pagare e uscire: l'ora era vicina. Si era velocemente dileguata anche lei, le boccette vuote, un'oppressione nera nel petto. Al resto avrebbero pensato Gustav e gli altri, in arrivo in Loco X ad istanti.

Ci ripensava in Metro -sguardo a terra, cuffia in timpano- a quella sua prima partecipazione a un Intervento: ne era passata di acqua sotto i ponti. Quella prima volta il sentore scuro nel petto non l'aveva abbandonata fino a sera: aveva passato il resto del giorno davanti al pc, pagina web delle notizie fresche, cronaca locale, a digitare aggiorna a intervalli regolari, sempre più brevi, con le dita tremanti. Quel ventre tondo, immagine fissa. Aveva avuto mal di testa, zero fame, l'ansia solita alla bocca dello stomaco: stavolta, però, giustificata. Non era rimasto ucciso nessuno quella volta, tutte le ragazze -estetiste, cassiera, clienti- anche un ragazzo -eh sì- erano riuscite a fuggire e a salvarsi. Anche Gustav e gli altri erano stati velocissimi: entrati come clienti, erano riusciti immediatamente dopo, di corsa, senza che la ragazza all'ingresso potesse fare granché. Il Manipolo del resto vedeva con favore la morte e il dolore fisico degli "operai del Bello", non esisteva pietà. Uccidere rientrava, eventualmente, nei piani. Quella degli operai era una morte spesso accidentale, non strettamente necessaria; diverso il caso delle grandi personalità, selezionate con cura da un'apposita Commissione presieduta da Mesiota in persona: modelle e modelli, soubrette, battone introdotte facilmente in politica. Si trattava di episodi rari, eccezionali, "ma di forte carica simbolica, capisci?". Gustav tentava di spiegarglielo: "eliminare singoli non è sbagliato, tutto rientra in un grande progetto di cambiamento, di rigenerazione, capisci?". Storia vecchia, vecchissima davvero. Non capiva, non condivideva; eppure anche lei aveva una "M", piccola, sì, ma tatuata sul braccio. Per lui era diverso: figlio di una tedesca scapestrata e di un italiano non scapestrato ma folle, aveva perso il padre da piccolissimo e sin da allora aveva odiato e voluto morto il mondo. Aveva partecipato a movimenti sovversivi di ogni scuola e colore, e non aveva mai smesso di uccidere animaletti per puro divertimento, come i bambini prima di incivilirsi. Sin da giovanissimo si era inserito nelle frange più marginali e periferiche: di lì proveniva la sua preparazione e abilità organizzativa. Si calava droghe di ogni specie -favoriva la chetamina- senza mai pentirsene; era parte del gioco. Una pessima frequentazione, di quelle da evitare come la peste. Avrebbe dovuto fuggire un tipo del genere, ci pensava in metro. Lei non aderiva mai a stupefacenti e similari: riteneva il cervello l'unica risorsa, non poi così ricca, del resto, sui cui poter contare, essendo costantemente in banca rotta e non essendo neppure -eccolo- attraente. Era stata sempre contraria alla violenza, i cortei in piazza a gridare a gran voce e correr dietro ai carretti musicali si erano sprecati, già a partire da età ginnasiali.
Da evitare, quel tizio, da cassare: quei due zigomi non erano nemmeno così puntuti, a ben guardare, e poi non era roba per lei. Ma a partire dal giorno seguente -seguente a quel battesimo al solarium- avevano cominciato, lei e Gustav, a girovagare insieme, just strolling around, per "diffondere il Dato". "Ti va? Allora, vieni con me?". "Ci sto, ci sto. Ci vediamo dopo".
Aveva provato a coinvolgere le Altre, le sue amiche di vecchia data, ma non era riuscita a irretirle. "Ma che è sta storia del serpente?!? Ma per favore, dai..Ma proprio tu mi cadi in queste idiozie? Stai scherzando, vero? Non avrete a che fare con quei parrucchieri in fiamme?". Che brutto mentire alle Altre.
La Metro proseguiva rapida, rapidi erano stati quei mesi. Molti centri di bellezza avevano chiuso i battenti, per paura; si sapeva di estetiste che abbandonavano sempre  più numerose gli studi; i clienti erano sempre meno, sempre più radi. Bisognava avere del fegato a farsi una lampada. Molti membri del Manipolo erano stati arrestati, ma se ne arruolavano di nuovi, di freschi, uomini, donne, imberbi  e in pensione.
(Emilio Smunti 2011)
-CONTINUA-

domenica 7 ottobre 2012

MANIPOLO (5) di Emilio Smunti


Si era ritrovata -mezz'ora dopo, senza neppure potersi lavare i capelli, Dio mio- in una sala prove per gruppi musicali: insonorizzata. Il solito ingresso contratto a muso basso, lo stomaco in subbuglio, i due occhi dilatati: il Dio Disagio le aveva da sempre reso duro, ma anche ovattato, irreale, al cloro, ogni varcare soglia di luogo pubblico poco noto. Così alle poste, nelle aule d'ateneo, nei vagoni della Metro, nei negozi di vestiario; ma Gustav le si era avvicinato subito, strappandola al suo Nume. "Bene, sei venuta! Non abbiamo ancora iniziato, ma vedrai..siediti". Alcune sedie di fortuna erano state sistemate a semicerchio, non più di dieci. "Le cellule d'azione sono piccole, pochi membri: compatte e veloci. Rapidità di gesto e coesione, capisci?" : glielo aveva detto Gustav la sera prima, a sprazzi le tornava in mente quel dialogo lontano-sembrava lontano. Aveva preso posto come gli zigomi puntuti le avevano indicato.
A vederlo dall'esterno le era parso uno di quei patetici circoli di recupero in stile yankee: gente variegata che ama riunirsi in circolo, appunto, di ogni età e colore, purché dotata di problemi con l'alcool o di una malattia insanabile. Le sedie erano disposte a cerchio, in effetti, e la composizione era estremamente variegata. Aveva notato due donne sui forse 60, una ragazza giovane e alta, due minorenni d'età ginnasiale, un signore distinto con giacca elegante. Aveva cominciato, come sempre, a sentirsi estranea, straniera, fuori posto; ad agitarsi sulla sedia.
Non era Gustav il Coordinatore del Manipolo, come aveva supposto. Lui era incaricato di "diffondere il Dato" -ah già, vero- e in quel momento discuteva in un angolo con il -lui/lei sì- Coordinatore del Manipolo. Una trans di età indefinita: forse l'ultima categoria di persona -ma poi perché, Dio mio?- che si sarebbe aspettata di trovare lì dentro.
Aveva iniziato ad ascoltare con il solito scetticismo di rito, con il solito vecchio restar sull'attenti. Riusciva a carpire tensione produttiva nell'aria, entusiasmo: e lei non sopportava alcun tipo di entusiasmi, non ne ammetteva. "Come si fa a essere ancora entusiasti dopo la caduta del muro?". Stavano mettendo a punto gli ultimi dettagli organizzativi per un Intervento, previsto per il giorno seguente: un enorme solarium di lusso sarebbe andato alle fiamme, in pieno giorno, alle 10.30. "Di certo non è giusto. Non si può. Il proprietario si troverà sul lastrico e..non è sua la colpa se..". Aveva realizzato che non le interessava granché dei conti del proprietario. "Si tratta di un'azione violenta, non giustificata". I cortei pacifisti del curriculum le si rivoltavano nello stomaco. Si trattava di introdursi come clienti, cospargere l'alcool, avvertire il resto della cellula: il più velocemente possibile, l'alcool etilico evapora in fretta. Due membri in attesa nei paraggi avrebbero fatto irruzione e completato il lavoro, fiammiferi alle mani. Roba da criminali, da folli invasati; per ottenere cosa poi? Nulla, se non un probabile arresto. Non solo si trattava di azioni pericolose e illegali, non solo di gesti immorali e intollerabili, ma anche di sforzi integralmente inutili. La cultura sarebbe cambiata facendosi Neroni, incalliti incendiari? No. Poteva restarci secco qualcuno, giovani lavoratrici al primo impiego dopo anni di scuola da estetiste, con tanto di chimica farmaceutica e biologia nel sillabo didattico. Giovani o non giovani innocenti potevano lasciarci le penne, senza troppe cerimonie. Lei non avrebbe mai fatto nulla del genere, mai.
Ed ecco che a fine seduta si era tatuata anche lei la piccola, invisibile, "M" sul braccio. Sulla parte interna, meno ostentata, del braccio. Piccolissima, ma di riconoscimento tra membri. Era diventata parte del Manipolo, quella sera; e sentiva il serpente avvinghiarla, sulla pelle.

(Emilio Smunti2011)
-CONTINUA-

giovedì 4 ottobre 2012

MANIPOLO (4) di Emilio Smunti


Era stato Gustav -claro- a farla entrare nel Manipolo.
Gliene aveva parlato quella prima sera, per questo l'aveva presa da parte. Fermava ragazze, ragazzi -specialmente ragazze- così, senza metodo. Era uno dei suoi compiti: "diffondere il Dato", così diceva. Aveva scelto lei "perché avevi qualcosa di eloquente nel tuo muoverti". Probabilmente -lei lo sapeva- aveva agito a caso, senza pensarci, a mente vacua. Non l'aveva scelta, ci si era trovato davanti. Gustav era così: faceva di tutto sconsideratamente, senza troppe cerimonie, per poi applicarvi a posteriori motivazioni a suo parere solide, incatenamenti causa-effetto da non poter dirgli di no. Perciò lei, ancor prima di conoscerlo, ci aveva beccato a dargliela vinta, a far finta di dar credito: "Uh qualcosa di eloquente? Interessante! Dimmi..". Naturalmente, per via di quegli zigomi puntuti.
Il Manipolo esisteva da tempo, ed era stata una donna a fondarlo, "una gran donna, un mito", Mesiota. Nessuno sapeva se fosse stata in passato una Bellona o meno: fatto sta che era bellissima. "Per la sua età, chiaro: ormai è sui 60". Era ancora lei a gestire il tutto, in gran parte, ma ormai il Manipolo era ben organizzato e sviluppato, articolato in cellule autonome dislocate in tutto il paese. "Un movimento serio, il mondo sta cambiando davvero stavolta". Lui, Gustav, c'era dentro soprattutto per ansia distruttiva, per ribellismo idiosincratico, ma questo, lei, l'avrebbe scoperto dopo. "Dovresti unirti, sai, il futuro è dalla nostra". Si calava di tutto con nonchalance, il vecchio Gustav, e parlava di futuro. "Esiste un altro mondo possibile, risorse impiegate altrove". Era da tempo, in effetti, che saloni di bellezza, parrucchieri e centri estetici finivano misteriosamente in fiamme.
Le aveva lasciato il Credo del Manipolo, un cartoncino rigido e nero di quelli da rollo. Se l'era ritrovato nello zaino il pomeriggio seguente, appena dopo colazione. Si erano anche scambiati il numero. Aveva bevuto troppo, i muscoli a pezzi per l'umido notturno e il ballare spasmodico; ma lo ricordava bene quel mezzo teutonico.


La bellezza non è potere. "Ma: sì che è potere, lo è, io lo so, l'ho visto, lo è da sempre. Con certe facce si ha vita facile: esser nati belli, ed oggi ero contenta, non un nugolo contratto di voleri ma non posso. Fossi bella, avrei potere: camminare in strada senza smorfie imbarazzate, senza invidia come nulla alla donna ch'è di fianco, lei che sfreccia come brezza di velluto e tacco alto, lei che sfuma di profumo, che s'irradia vaporosa, lei che può, lei che -ch'ogne lingua divien tremando muta: la storia è vecchia. D'acido nero i complimenti verbosi provenienti a volte dagli amici dei genitori -"che bella figliola": da torcer la bocca per il malore. Perché articolarli, quando il potere oggi è bellezza, e il naso serpeggia imponente e gobbuto, il cerchio degli occhi s'impone eccessivo, il blu della pelle inanella le occhiaie; le spalle ricurve ghignanti pesanti, il ventre rigonfio farcito di vento. Se sei donna e non bella, il mondo ti espelle. E invece: lo sguardo insistente, spalancato, irriverente; la bocca socchiusa e rosata, gonfiata ad arte con sforzo muscolare; le mani bianche da smalto malizioso che premono con foga i seni seminudi. Questo è potere. E se qualcuno -nel senso proprio del pronome indefinito: qualcuno, non importa chi- articola "brava", sottoscrive "bella", allora, solo allora, il tuo potere è riconosciuto, lecito, reale. Ora esisti, ora puoi tutto".
Non deve esserlo. "Ah ecco, è un dover-essere, un imperativo categorico, un astratto, un'idea...".
Non lo sarà più. Troppe energie e troppe risorse, tanto economiche quanto spirituali, risultano impiegate sul fronte dell'aspetto fisico, contribuendo ad accrescerne l'importanza: il business si espande, la cultura asseconda; la cultura macina domanda, il business risponde di rimando. La vecchia storia del serpente del mondo, che ingoia eterno la  sua stessa coda: il serpente deve, e può essere ucciso. Il baricentro culturale deve essere, può essere spostato. "Un tono visionario improponibile, dai...". Però le brillavano gli occhi.
É il serpente che rende la bellezza indispensabile, necessaria, e acquistabile. Raggiungibile, addomesticabile. Ma l'agevole compravendita del bello è un inganno del serpente. "Mmmm. Difficile da prendere sul serio. Come si fa a essere così seri? Tuttavia..".
È il serpente che rende la bellezza fisica valore supremo, ipoteca di vantaggi e guadagni, di vite facili più lisce di olio. "Vite facili: lo pensava sempre anche lei. Il vecchio potere dell'odioso sguardo ammiccante..".
Il serpente striscia e s'insinua entro spazi impensabili. Penetra ovunque, e rode dall'interno. Ed ecco, era questo che l'aveva sempre stordita: anche lei -lei che aveva tutt'altro tipo di interessi, passioni, progetti, lei che studiava lingue inutili e morte di secoli e sognava di inventarne di nuove, lei che amava il bivacco e i campeggi nella fanga- ecco, anche lei -inaudito- c'era dentro fino al collo. Anche lei era finita a provare rabbia di fronte al ruvido delle gambe e a desiderare addomi piatti scolpiti di muscolo; a sentirsi male ad ogni bieca visione di specchi improvvisi; a provare dolore per la propria statura mediocre; a piangere amaro per le rughe d'espressione palesatesi un giorno allo specchio; a camminare a testa bassa, sempre, in strada; a frignare sola negli autobus ai passaggi di Bellona. Persino lei che odiava di stomaco contratto quell'impero contemporaneo di Bellone da tv, persino lei doveva riconoscersene vittima. Inghiottita dal serpente. Vittima autocommiserante e piagnona: della peggior specie. Del resto era pieno di ragazzi e ragazze che pur studiando in prestigiosi atenei -futuri avvocati, oibò, magistrati, economisti, uh la la- detenevano altrettanto prestigiosi book fotografici ritraenti i suddetti futuri avvocati/magistrati/economisti in pose equivoche e abito succinto. Conosceva diverse studentesse  che, dal canto loro, praticavano nudo integrale su siti soft porno di Bellone alternative, sentendosi dive e non più mere matricole. La sua d'altronde era invidia: lei non avrebbe potuto tirare sù soldi vendendosi mutande usate online, siamo seri...Solo invidia. Tutta -pura, vera, sana, vecchia, immonda, imperitura- invidia. Mieteva ore utili -lei! Sì, lei!- a guardarsi foto di Bellone on the net, sbavando in concreto e arrossandosi gli occhi: sentendosi meno, impotente, nessuno. Tutta invidia, claro, è invidiosa: non le badate, lei rosica, è bassa. Non che fosse una bigotta: non aveva mai esitato a concedersi a perfetti sconosciuti, purché le piacessero, anche nella fanga, e amava  i reggicalze e le calze ricamate. Ma intanto pensava ai programmi televisivi, al diktat dei capelli lucenti, ai soldi buttati, ai culi in primo piano: e si sentiva avvinghiare.
Non aveva neppure finito di leggere il Credo: subito aveva inviato un messaggio a Gustav, dicendosi pronta a partecipare. La risposta era stata scarna e fulminea: nient'altro che le coordinate dell'appuntamento, previsto per mezz'ora dopo; l'appuntamento per l'intera cellula 31, quella di Gustav, chiaro.

(Emilio Smunti 2011)
-CONTINUA-