martedì 29 aprile 2014

JO SHAPCOTT o della malattia (1), di isabnic

Ho trovato su  Scott Edward Anderson’s Poetry Blog   la poesia di Jo Shapcott  “Of Mutability”(Sulla trasformazione).
   Jo Shapcott[1] , la pluripremiata poetessa londinese, nel 2004 aveva scoperto di avere un cancro al seno e qualche tempo dopo le era capitato di raccontare di essersi sentita quasi rinascere a nuova vita durante il periodo di cura post-operatorio. Tuttavia,  al tempo stesso confessava di essersi sentita trasformata in  una persona un po’ diversa da quello che era stata prima. Da questa esperienza   nacque la raccolta di poesie Of Mutability, pubblicata nel 2010 dalla Faber and Faber di Londra, come se un bisogno profondo si fosse generato dall’osservazione del suo stesso  corpo dopo la mastectomia, le terapie chemio e radio, attraverso una dolorosa presa di coscienza della malattia e dei suoi rischi.
   Non era la prima volta che oggetto di poesia fossero i cambiamenti più o meno repentini della vita e della natura, come  il variare dell’età e delle stagioni, le malattie e la loro evoluzione, le perdite dolorose, le gioie fugaci, la fortuna instabile.  Tuttavia il  tono personale e sfrontato, quasi aggressivo e entusiasta insieme, il  linguaggio sensuale e razionale, diretto e misterioso allo stesso tempo, ma mai apertamente personale, rendono i suoi versi assolutamente originali.  On Mutability é dedicata ai dottori dell’Hereford County Hospital, in essa però non c’è mai un esplicito riferimento al cancro al seno e ai suoi effetti immediati sull’aspetto del corpo dell’autrice.
Ecco, dunque, la prima poesia della raccolta, che da il titolo al volume:

Sulla trasformazione 

Troppe fra le migliori cellule del mio corpo
Prudono, s’induriscono  e s’arrossano dolenti
In questa fredda primavera. E’ il duemilaquattro
[…]
Abbassa gli occhi in questi giorni per vederti i piedi,
diffida del pavimento  e delle tue analisi del sangue
che danno al dottore un’espressione seria.

Alza lo sguardo per cogliere le eclissi, le foglie d’oro, le comete,
gli angeli, i candelieri, con la coda dell’occhio.
Raggiungili se ti va, studia astrofisica o
Impara canti popolari, (tutto) sul sacrificio umano, sul destino di morte,
come volare,  pescare,  far sesso senza  toccar molto.
Ma  non ti affannare  per andare ovunque, tranne in cielo.

Una visione in orizzontale del proprio corpo a letto nella prima strofa, un invito all’ottimismo nella seconda.
Le poesie della raccolta “ Of Mutability” sono dunque variazioni sul tema del cambiamento legato alla malattia, non solo del corpo, ma anche dei rapporti con le persone, quando piccoli eventi quotidiani sono vissuti come se fosse l’ultima volta o  osservati con lo stupore della prima. Insomma,  uno sguardo franco e diretto, ora serio ora gioioso, sulla mortalità.
 Il volume di Jo Shapcott ha molti punti di contatto con  il saggio di Virginia Woolf, Sulla malattia[2], in cui la grande autrice descriveva la natura trasformativa del male. Una condizione con regole di comportamento nuove - la malattia secondo la Woolf- con una diversa percezione del reale. Il molto tempo passato a letto, abitua a una visione orizzontale che sostituisce quella solitamente verticale, così che lo sguardo più facilmente si volge verso il cielo. La malattia affina le sensazioni e riduce l’ autocontrollo, permettendo in tal modo alla verità, tenuta nascosta dallo stato di salute, di manifestarsi spavalda. Virginia Woolf si chiedeva come mai la malattia non avesse goduto tra i letterati altrettanta considerazione di altri temi come l’amore, la guerra e la gelosia. Jo Shapcott ha accettato la sfida.
(isabnic2014)




[1] Jo SHAPCOTT è nata a Londra nel 1953. Da sempre una grande lettrice, ha vissuto un’infanzia felice con la sua famiglia.  La morte quasi contemporanea e in parte inaspettata dei genitori, quando Jo aveva diciotto anni,  distrusse la tranquillità che fino allora aveva caratterizzato la sua vita. Studia al Trinity College di Dublino, dove comincia a scrivere poesie. Trova il  suo punto di riferimento nelle opere della poetessa americana Elizabeth Bishop, sulla quale scriverà la sua tesi di dottorato a Oxford. Studia con Seamus Heaney, comincia a pubblicare le sue opere subito riconosciute. Vince nel 1985 e nel 1991 il National Poetry  Competition -unica finora ad aver vinto questo riconoscimento due volte. Con la sua prima raccolta, Electroplating the Baby(1988), vince il premio per la poesia del Commonwealth; con la terza raccolta, My Life Asleep(1998), ha vinto il premio Forward.


[2][2] V.Woolf, Sulla malattia (On Being Ill) , a cura di Nicola Gardini, Torino, Bollati Boringhieri Edizioni, 2006.

mercoledì 16 aprile 2014

BORSITE (3) di isabnic

Sono nata in un paese umbro, forse l’unico così immodificabilmente  brutto in tutta la regione: Tarnasco.  Stando alle cronache familiari che miravano a nobilitarlo in qualche modo, Tarnasco doveva essere all’origine una stazione di posta per il cambio dei cavalli tra Perugia e Città della Penna,  diventato poi col tempo mercato di animali e alimentari per i paesini, gli agglomerati e la campagna attorno. Sono nata quando ancora i contadini erano tutti comunisti, almeno in quella zona, e la povera parrocchia di Tarnasco era frequentata ogni anno da missionari che tentavano di diffondere la parola giusta. Senza grande successo. Questo negli anni cinquanta. Poi la situazione era cambiata, un po’ come in tutta Italia. La gente mangiò di più, tutti riuscirono ad avere almeno un paio di scarpe e ci fu un tempo per l’anima e la religione anche lì. Arrivò a un certo punto anche un parroco più volitivo, quello che – qualcuno dei  vecchi paesani ancora lo ricorda- quello, dunque, che insegnava il catechismo a suon di gnocchini in testa ed era perfino riuscito a far di mio cugino Gianni un chierichetto.
Don Giuseppe era un omone con i capelli grigio-gialli incolti, con la lunga tonaca nera sempre impolverata e un tocco in testa. Avevo quattro o cinque anni allora e faccio fatica a ricordare  Gianni nel pieno delle sue funzioni di chierichetto perché, anche in quel periodo, proprio non riuscivo a crederci che potesse esserlo o potessero cercare di farcelo diventare.
Mio cugino, più grande di me di cinque anni, era già una vera teppa a quei tempi. Pelle scura, capelli corti e ricci, gambe storte da bambino, ma già fumava di nascosto. Gianni sapeva maneggiare con disinvoltura lo sterzo del camioncino, a motore spento, quando era parcheggiato in magazzino tra pile di piatti e pentole da vendere, e mi portava con lui durante le scorribande con gli altri maschi della sua età, sui greppi incolti dietro casa. Loro facevano la guerra e io aspettavo sotto un albero enorme, dentro una buca di terra fine lì accanto, raccogliendo le ghiande per cucirle insieme con il filo da imbastire e farne collane. Si tornava a casa per la merenda del pomeriggio, sporchi e affamati al richiamo: “ Gianninooooooo! Tornaaaa! Tornatee! Ve dovete custodì.
Questo del custodire era un rituale fantastico nella prima parte, noioso e talvolta doloroso nella seconda. Voleva dire prendersi cura di sé dopo le corse scalmanate e libere, cedere, cioè, e di buon grado, al dovere di tornare nella società civile  per esserne accettati e ciò poteva avvenire soltanto offrendo un’immagine di sé linda e pulita e soprattutto senza confusione o mescolanze di sessi.
Ci spogliavano, e rimasti in mutande, ci mettevano dentro la vasca-lavatoio di cemento fuori in terrazzo. Ci insaponavano  viso, orecchie, mani, braccia, piedi e ginocchia con sapone da bucato. Noi ridevamo e ci schizzavamo provocando rimbrotti, minacce e tirate di capelli. Poi ci separavano e le mie abluzioni continuavano in bagno; in camera mi mettevano la biancheria pulita, mi facevano indossare un abitino da bimba,  infilare i calzini e i sandali bianchi con gli occhietti. Si finiva con l’acconciatura della chioma: trecce o coda o codini che fossero mi tiravano sempre i capelli mentre io mi muovevo qua e là. Qualche anno dopo avrei tentato di fulminare mia madre durante questa operazione infilando il mio cerchietto di metallo per i capelli dentro una presa a poca distanza dal luogo del mio martirio quotidiano.

Dopo esserci custoditi,  il sodalizio con Gianni  sarebbe stato interrotto almeno fino al mattino dopo. Anche la merenda era solitaria e separata. La mia, consumata svogliatamente perché dovevo prestare attenzione a non sporcare il vestito appena messo, consisteva di fette di pane senza sale bagnate con acqua e vino e spolverate di zucchero, o imbevute di olio e spruzzate di sale( massima allerta e attenzione), o spalmate di marmellate di mela cotogna che non amavo, o accompagnate da un pezzo di carroarmato Perugina. “Perugina”. Si diceva Perugina con un certo tono di orgoglio nella voce, come se il fatto che la fabbrica fosse a Perugia, a venti Km dal nostro paese, e il nonno vendesse questa marca di cioccolata nel suo bar, desse a noi un qualche diritto alla proprietà di quella azienda o all’ identificazione con i suoi proprietari di cui si seguivano gli eventi familiari con curiosità e affetto. (Naturalmente per almeno venti anni della mia vita ho sempre continuato a credere che quella fosse la cioccolata migliore di tutta Italia.)
Oltre a Gianni nella grande casa c’erano anche le due cugine Palma e Martina. Quest’ultima era la sorella di mio cugino, di un anno più grande di lui. Quelle due allora mi sembravano antipatiche, perché  stavano sempre insieme a parlare sottovoce, odiavano Gianni e godevano ogni volta che veniva punito dalle zie e dagli zii. Il ché avveniva abbastanza spesso. Lui si vendicava rompendo o nascondendo o vendendo le loro cose, spiandole e prendendole in giro. Spesso poi si picchiavano o lui le spingeva a terra con forza. Loro urlavano e piangevano e lui veniva di nuovo punito.
Il fatto è che lui era proprio una teppa. Riuscì a vendere perfino l’anello di fidanzamento di mia madre: pare che lo avesse fatto per pagare e, così, poter vedere le gambe o qualcos’altro di una donna compiacente. Gianni rubava sempre anche la frutta dalla dispensa, gli spicci dai comodini                           e mentiva, mentiva spudoratamente. A scuola poi era una disperazione.
Si diceva che il secondo giorno di scuola della sua vita non volesse alzarsi presto al mattino e continuasse a borbottare: “ Uffa, sempre a scola, sempre a scola!” Insomma, un vero asino e pensare che la sua mamma, zia Nora, era considerata una bravissima maestra, molto dotata nel disegno. Era una donna da film neorealista, che, per andare al lavoro, partiva presto al mattino, vestita in tuta, sulla sua motoretta, mentre, invece, la domenica amava indossare abiti molto femminili e gioielli. Per me era un mito perché lei era l’unica tra le cognate a lavorare fuori casa e aveva perciò il diritto talvolta di sentirsi stanca e avere male alle gambe. Doveva anche aver studiato in una grande città e frequentato parenti molto ammodo.
 Ma quando non si usciva per i campi, il gioco più bello con Gianni si svolgeva in camera sua, sul tappeto al lato del letto. Questo scendiletto diventava il nostro mondo e i pomeriggi lì sopra volavano via fino all’ora di cena, quando la stanza diventava buia e cominciavano i richiami delle zie. Era un tappetino di stoffa a trama fitta, con disegni geometrici beige, marroni, verde chiaro e scuro come una mappa di Google, il nostro mondo visto dall’alto. Lì mettevamo la casetta- salvadanaio dell’INA Casa, e altre scatole di cartone. Poi Gianni prendeva le automobiline e i camion della sua collezione, qualche alberello finto di plastica e le case e gli alberghi del Monopoli, e si cominciava. Lui era un ricco signore con Ferrari che raggiungeva la sua fabbrica con i camion in miniatura parcheggiati lì davanti, io -sua moglie- con una bellissima fuoriserie decappottata rosa, molto americana, potevo andare a trovarlo o a fare spesa nel paese vicino alla nostra villa. Talvolta avevo degli incidenti lungo il percorso e lui poteva venire in mio aiuto e trainare la mia auto con un pick-up della sua collezione. Potevano anche esserci degli inseguimenti con la macchina della polizia, ma noi eravamo sempre troppo furbi per farci raggiungere e multare. C’era già in questi giochi, architettati principalmente da lui, qualcosa della sua futura visione del mondo che non avrei poi condiviso, ma allora tutto ciò mi sembrava decisamente nobile e eccitante.

Qualche anno dopo mi propose di investire i miei risparmi nella sua banca privata. Non c’era nessuna banca naturalmente, ma era un modo di farsi prestare soldi visto che il padre e la madre, scontenti del suo comportamento a scuola,  gliene davano ben pochi. Mi propose dunque di dargli i miei soldi che mi avrebbe restituito con un certo interesse dopo un po’. Io rischiai sconsigliata da tutti,  ma lui -a dire il vero- me li restituì davvero con il guadagno, come pattuito. Però, saggiamente, non volli rifarlo e quando, dopo molti anni, fece qualcosa del genere con mio padre,  ho sempre pensato che così facendo avesse contribuito in modo consistente alla rovina finanziaria della mia famiglia.
(isabnic 2009)
-CONTINUA-

AVVERTENZA: Fatti, nomi e situazioni sono forse parzialmente veri, ma anche assolutamente falsi e stravolti come ogni ricordo che si prova a raccontare, quando ti ci prende gusto a farlo e quando soprattutto ti chiedi perché dovrebbe interessare a qualcuno. Certo, ripulire la testa, riordinare i ricordi che non usi tutti i giorni, come programmi non utilizzati sul desktop, fa star meglio. E se lo scrittore sta meglio, i familiari ringraziano. 
-CONTINUA?-

sabato 12 aprile 2014

BORSITE (2) di isabnic


BORSITE (2)

"Sì, ho quasi sessant’anni, come il capitano Achab,  e il mio ginocchio sinistro da qualche giorno si è fermato. Non riesco a tenderlo, né a piegarlo. Ho un dolore lancinante, continuo e pulsante nella parte interna del   ginocchio. Forse è anche un po’ gonfio e arrossato.
Insomma, sono immobilizzata a letto. Meno male che in questa stanza ci sono due finestre che quasi si fronteggiano, e posso seguire il tempo che passa osservando il variare della luce sulle facciate dei palazzi dirimpetto, mentre cerco di indovinare  la vita in quegli interni misteriosi improvvisamente illuminati  dietro le tendine poco discoste e poi perduti all’ abbassarsi nervoso delle persiane col calare del buio. Mi alzo solo per andare in bagno aiutandomi con il bastone del mocho e una sedia che trascino dietro  per sicurezza. Mangio a letto sul vecchio vassoio di plastica rossa con le zampe, dove è rimasto ancora qualche sticker, ricordo di antiche influenze delle mie figlie.
Qualche tempo fa ho subito una piccola operazione alle gambe e fasciandomi dall’inguine in giù, il chirurgo dai modi galanti mi aveva detto: “Non se le tolga per una settimana e stasera si faccia coccolare.” Tuttavia, non c’erano state coccole allora e forse il mio corpo ora si sta riprendendo una rivincita.
Stanotte è più che mai una notte buia e tempestosa . Squarci luminosi e freddi interrompono l’oscurità filtrando tra le stecche della serrande, che rabbrividiscono per il vento, insieme a borbottii, boati, scariche improvvise e rumore di pioggia fitta fitta. Alcune di queste scariche sono forti e sembrano cadere vicino, seguite da allarmi che entrano in funzione uno dopo l’altro in un coro di gemiti senza fine.Povere piante sul balcone! Povere piante abbandonate da giorni e poveri bulbi messi a dimora secondo istruzioni e ormai probabilmente e inesorabilmente fradici!
Poi alle quattro uno squillo di telefono solitario. Forse quello di stanotte era un segnale, una sollecitazione.Chissà.
  Dormo qui, da sola. Mi piace dormire in stanze non completamente oscurate e sapere quando arriva il giorno. Ma stasera questi lampi sono violenti e continui. Sento il vento che batte con violenza il telo di plastica sul balcone.
... Luce forte e calda,  vento che solleva granelli di sabbia che bombardano la schiena arrossata dal sole. La spiaggia è una ripida discesa di rena fine e dorata, siamo soli e l’acqua del mare sembra fremere sotto il soffio del vento. Ho addosso un buffo costumino di lana con bretelle. La mamma ride felice mostrando i bei denti alla macchine fotografica del papà e io alle sue spalle piango. Mi sento sola e ho paura. Sicilia 1954, forse. Il mondo dei ricordi è ancora in bianco e nero, con i bordi frastagliati.
Si è sturato improvvisamente il passato e non è brutto, come temevo. E’ come rivedere un parente che da tempo non si frequenta più. Sorridi affettuosamente a certe immagini o parole che vengono in superficie senza un ordine apparente. Poi, appena ti lasci prendere da una di queste, altre cento appaiono accanto. Aggiusto il cuscino e mi racconto la mia storia.

Della Sicilia, Calabetta per essere esatti, non ricordo molto: un appartamento vuoto in cima a tante scale, papà che mi porta in braccio addormentata, io piccolina a letto tra i miei genitori con la radio accesa mentre tocco i lobi delle loro orecchie. Un piacere segreto da praticare ancora in solitaria. Poi un’altra casa, con veri mobili e un ombrellino rosso con il manico di osso a forma di testa di papera. Un viaggio in treno con il nonno, dalla Sicilia a Tarnasco, durante il quale rimango chiusa nella toilette. Terrorizzata dal rumore, dal dondolio, dall’indifferenza di quel treno che continuava a correre e fischiare coprendo la mia voce in cerca di aiuto,  mi ferisco a una mano per cercare di aprire e piango. Arrivati in paese trovammo la neve: non l’avevo mai vista, e mi sembrò così accogliente che mi ci buttai dentro e tentai di nuotare dentro a quel mare fermo e silenzioso.
(isabnic2007)
-CONTINUA-



TSERING WOESER, non solo blogger ( 2)


Woeser è soprattutto una poetessa e lo è sempre stata, prima ancora di occuparsi attivamente di politica. Ha, infatti, dichiarato in un’intervista di aver fatto comunque e sempre  poesia, anche scrivendo saggi o materiali in prosa. “In cinese, l'ideogramma poesia () è composto da parola () e tempio ().  Questo significa –ha detto- che un poeta è anche un oratore, un oratore che contemporaneamente ha una missione da compiere,  un compito, un’estetica da sostenere e un sentimento religioso da condividere”. Dunque, essere un poeta per lei vuol dire anche essere un testimone.
A.E. Clark ha tradotto in inglese l’ antologia di poesie  di Woeser  Tibet’s True Heart, pubblicata nel 2008 da Ragged Banner Press. Eccone qualche assaggio in italiano:


  Sulla strada

Sulla strada con mente piena d’ansia
fuggirò il caos di questo mondo fluttuante,
sceglierò un luogo dove fermarmi,
troverò le parole giuste
per raccontare questo giro della Ruota
[…]
Sulla strada, in cammino da sola.
Un vecchio libro, senza una cartina,
una penna, poco da mangiare,
ballate di una terra straniera:
mi basterà. Sulla strada
vedo un cavallo nero che non piega la testa per brucare
ma batte gli zoccoli,
infastidito perché non può correre via libero.
Tuttavia, in profonda meditazione  si arrende

[…]
May 1995
Lhasa


Un foglio di carta può diventare un coltello

Un foglio di carta può diventare un coltello
- anche piuttosto affilato.
Stavo soltanto voltando una pagina
quando mi si  è tagliata la nocca dell’anulare della mano destra.
Un taglio piccolo, ma netto
sottile come un fil di seta, e pungeva un po’
Metamorfosi inquietante
di un foglio in un coltello:
doveva esserci un qualche errore, o
una sorta di cambiamento improvviso
questo foglio qualsiasi… un brivido di timore

                                                                   16 ottobre, 2007
                                                                   Pechino


 Sempre su High Peaks Pure Earth è apparsa una traduzione in inglese di un’ altra poesia di Woeser. Questa volta a cura di David Cowhig:  Helpless (2012).


 Derelitto


                                                                     Prendo un libro
leggo qualche pagina e lo metto via
 Fuori della mia finestra, Pechino
 gonfia di sentimenti da fine del mondo
Tra le nebbie, non riesco a vedere
 palazzoni non lontani da qui,
(ma) ciò che mi stringe l’anima sta molto
molto più lontano,
uomini intrepidi di quelle terre
tra le fiamme, saranno
anche loro colpiti da pallottole rosse?
17 gennaio, 2012

Nota: Il 14 gennaio di quell'anno, un Monaco Ngaba si era  dato fuoco per poi essere colpito a morte dalla polizia. Dal 27 febbraio del 2009 in Tibet si erano immolati ben diciassette tibetani; dodici di loro avevano già sacrificato la propria vita, quando altri quattro furono portati via dalla polizia - non si sa dove né se morirono o se sono ancora vivi. L’altro, gravemente ferito, è da allora in un monastero.

Continua a parlare, Tsering! Fa ancora sentire la tua voce.

(gogo2014)

venerdì 4 aprile 2014

TSERING WOESER, una blogger per il Tibet (1)



Chi è Tsering Woeser?
 Una scrittrice, una poetessa, una blogger e “una tibetana che vive in esilio in Cina”, come lei ama definirsi, anche se il territorio tibetano appartiene ufficialmente allo stato cinese.  Oppure, è  “la cagna tibetana”, come l’appellano i suoi detrattori e censori?
Tsering Woeser (1966) è per tre quarti tibetana e un quarto di etnia Han. Dopo aver lasciato Lhasa da bambina, ha vissuto con la sua famiglia nella parte occidentale del Sichuan, dove ha studiato in cinese e si è poi laureata in letteratura cinese. Ottenuto un posto di lavoro presso la rivista letteraria Tibetan Literature, in lingua cinese e finanziata dallo stato centrale, torna a Lhasa con la famiglia e qui si consolida la sua presa di coscienza identitaria. Comincia a studiare il tibetano e il Buddismo. Nel 1999 pubblica una raccolta di poesie Tibet Above dove esprime la sua personale percezione della cultura tibetana e della religione buddista. Nel testimoniare il duro controllo cinese sulla lingua e la religione nel suo paese d’origine, diviene sempre più radicale e impegnata in un’opera di documentazione continua e puntuale della realtà tibetana. Nel 2003 pubblica Appunti sul Tibet, che non furono censurati, ma furono però accusati di contenere “errori politici” tali da provocare un suo nuovo allontanamento da Lhasa. Fu costretta, dunque, a lasciare il lavoro, per poi trasferirsi a Pechino.
Il suo blog, Invisible Tibet,  che è una piattaforma per articoli, libri e post di altri blogger tibetani,  fu chiuso per la prima volta nel 2006. Durante la rivolta del Tibet nel 2008, la libertà di movimento di Tsering e quella del marito, Wang Lixiong, andarono incontro a notevoli restrizioni, ma dal 2009 il blog  diventa, comunque, anche il più importante luogo di denuncia e documentazione di tutti i casi di immolazione di tibetani dentro e fuori il Tibet. I post di Tsering, inoltre, appaiono anche sul portale di informazione Radio Free Asia, e lì sostiene apertamente la libertà di espressione e l’uguaglianza etnica, cose ufficialmente professate dal governo cinese, ma violate nella  pratica quotidiana. L’audacia di questi post, tutti saldamente documentati, le è valsa una grande popolarità tra i tibetani che vivono in Cina o all’estero.
Invisible Tibets, insieme alle sue poesie, agli altri scritti e alla sua partecipazione a diversi social network, ha dato la possibilità a milioni di persone di etnia tibetana di esprimersi e di far sentire la propria voce anche altrove. Nonostante i tentativi da parte del governo cinese di mettere in ombra la forza della sua informazione, attraverso  il controllo costante da parte degli agenti di sicurezza o la pratica del domicilio coatto nei momenti di tensione politica, Tsering  con coraggio continua a denunciare, con la convinzione che  “testimoniare è dar voce” e che lei comunque continuerà a farlo. Eppure il suo blog, la sua stazione radio monocondotta,  è stata spesso sotto attacco di hacker, i suoi account GMail e Facebook  sono stati chiusi e i suoi  contatti sono diventati destinatari di e-mail con virus (malware). Da non dimenticare che dal 2004 il CCP (Partito Comunista Cinese) obbliga tutti i cittadini tibetani a usare una carta di accesso a Internet, in modo tale da poter controllare ogni attività  on line.
La partecipazione di suo padre alla Rivoluzione Culturale ha offerto il materiale del suo terzo libro, Forbidden Memories: Tibet During the Cultural Revolution. Durante il programma maoista di rieducazione la maggior parte dei templi buddisti in territorio tibetano furono saccheggiati e furono bruciati migliaia di testi religiosi, ma il governo cinese ha messo tutto sotto silenzio cercando di arginare il dissenso della comunità tibetana. I file che si riferiscono al Tibet, infatti,  rappresentano una minima parte di tutto il materiale documentario della Rivoluzione Culturale in Cina. Forbidden Memories di Woeser pubblicato a Taiwan nel 2006, con la sua raccolta di saggi, interviste e le centinaia di foto inedite fatte dal  padre dell’autrice durante il servizio sotto l’’Esercito di Liberazione del Popolo,  riempie il vuoto di documentazione sul Tibet di quegli anni. “ Se non continuo a documentare e a parlare, - ha di chiarato la scrittrice-  il nostro paese sarà messo a tacere, la nostra storia modificata e i nostri giovani non avranno modo di sapere.” Quando nel 2007 a Woeser fu conferito in Svezia  il Premio per la libertà di espressione dell’Unione degli Scrittori, le fu impedito di partecipare alla cerimonia di conferimento negandole il passaporto per motivi di sicurezza nazionale, come per i dissidenti. Anche se i suoi siti sono stati temporaneamente oscurati, i suoi saggi e i suoi lavori sono apparsi in altre piattaforme in lingua inglese, come

 Highpeakspureearth.com. Tsering, dunque, continuerà a parlare nonostante le minacce.   (gogo2014)