venerdì 27 settembre 2019

"Sindrome 1933" di Siegmund Ginzberg, a cura di Gogo












“Sindrome 1933”

 Siegmund Ginzberg

 (Feltrinelli 2019)



Più che la presentazione del libro di Sigmund Ginzberg, quello a cui ho assistito con grande interesse, qualche sera fa alla Biblioteca Europea di via Savoia a Roma, è stato un dialogo fitto e appassionato sul presente tra l’Autore e Furio Colombo. L’incontro era moderato da Antonella Ottai e inframezzato dalla lettura di testi, scelti dal libro o collegati al periodo trattato, offerta dal bravo Bruno Maccallini.

 Antonella Ottai ha introdotto la presentazione di “Sindrome 1933” suggerendo i nodi intorno ai quali se ne potrebbe cogliere l’essenza: la concatenazione di eventi nazionali e internazionali che può portare all’ascesa di un potere forte, l’indebolimento delle forze di opposizione, la creazione di un pericolo contro cui c’è l’urgenza di tale potere ed eventuali analogie con il presente.

 La coinvolgente lettura di Maccallini del primo testo, parzialmente adattato dalle prime pagine di “Sindrome 1933”, ha fatto immediatamente cogliere agghiaccianti somiglianze con le notizie lette o ascoltate di recente qui da noi in Italia. Alcune parole chiave tra cui ‘maggioranze fragili’, ‘partiti litigiosi’, ‘veti incrociati’, ‘Sinistre divise e senza iniziative in comune’ fino a ‘saluti dal balcone’ hanno colpito più di una persona tra i presenti. 

 Eppure il libro, ideato e progettato poco prima delle elezioni in Italia di marzo 2018, proposto a Feltrinelli e poi scritto durante l’inverno e la primavera seguente, è stato pubblicato a maggio di quest’anno.  “Nel testo è possibile percepire l’analogia con l’oggi,- si è schermito Ginzberg - ma questa possibilità viene lasciato completamente al lettore” attraverso l’offerta di una puntigliosa ricerca storica.

 Furio Colombo ha sottolineato, infatti, la pacatezza del linguaggio usato dall’autore, buon narratore nonché saggista. “Si respira tranquillità” in un libro che racconta una storia allarmante attraverso un montaggio dei fatti. Un linguaggio, dunque, di tipo diverso da quello violento di chi usa la violenza secondo un modello fascista della comunicazione, come quella razzista e sessista che abbiamo ascoltato o letto di recente nei confronti del giornalista Gad Lerner a Pontida e della capitana Karola Rackete, perfino minacciata di stupro. In quelle odiose chat abbiamo potuto leggere quel linguaggio che la stampa solitamente censura. Una cautela che meraviglia quando si parla dell’ex Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, del suo “uso dei Carabinieri”, della sua richiesta di pieni poteri. Tutto ciò è come aver “acciuffato le parti malate di Weimar, l’inevitabilità del potere malato che fornisce anche materiale documentale falso o falsato (vedi la millantata dichiarazione di alcuni giudici di avere materiali scottanti contro le varie ONG)”.
 “Quello di Ginzberg -ha così concluso Colombo quello che a molti è parso quasi uno sfogo liberatorio- è un archivio di materiale vivo, attuale e non soltanto un’opera di riferimenti storici di un passato che non si ripeterà.”

 La creazione di un pericolo contro cui c’è l’urgenza di un potere forte -allora gli Ebrei, ma non solo,  e oggi i Migranti, è l’altra analogia sottolineata dal testo di Joseph Roth letto da Maccallini:  "… Dai tempi della guerra, in tutto dall’Est sono arrivate in Germania circa 50.000 persone. Devo dire che sembrano milioni. L’impressione di tanta miseria li raddoppia, li triplica, li moltiplica per dieci volte tanto." Oggi come allora, la paura fa crescere i sentimenti di rifiuto e razzismo, si creano leggende (come quelle su Soros, le ONG, etc) o teorie del complotto (quella della sostituzione dei popoli oppure  del lavoro rubato dagli altri) con un' Opposizione incapace di creare una vera alternativa.

 Anche le parole, in un altro dei brani letti, di Kurt Tucholsky, scrittore e giornalista tedesco, i cui  libri furono banditi e bruciati pubblicamente dai Nazisti nel 1933, hanno fatto respirare “un certo sentimento di insicurezza nei confronti della irreversibilità della democrazia rappresentativa”.

Non resta che leggere “Sindrome 1933” e riflettere sui dati storici che ci offre.

giovedì 4 aprile 2019

SOTTO IL SEGNO DELLO SCIMMIOTTO(4)

(4)


E, dentro i confini cinesi, in che rapporto con la potente tradizione culturale del paese si muove la ricerca della nuova poesia?
I poeti degli anni Novanta e quelli della nuova ondata di poesia d’inizio millennio sono autori che cercano indipendenza artistica e spirituale nel mondo finora sconosciuto della nuova economia di mercato Dopo il 1989, il legame tra creazione e coscienza sociale, ancora presente nei Menglong, scompare.  Al boom economico del paese si accompagna una grande offerta di possibilità editoriali e, nello stesso tempo, la scomparsa dei sussidi statali spinge molti artisti a produrre letteratura commerciale o a lavorare nella pubblicità. La modernizzazione sollecita, dunque, la formazione di una cultura di consumo che rende, però, marginale l’influenza e la posizione degli intellettuali nella nuova società cinese. Non ci sono movimenti generazionali di artisti in rivolta, ma personalità individuali i cui versi   esprimono l’incertezza, l’esitazione, la confusione, il rigetto degli ideali comunisti e contemporaneamente il disgusto per la cultura di massa. I nuovi poeti sentono la necessità di raffinare i propri atteggiamenti teorici e cercano un rinnovamento linguistico che superi sia l’oscurità e il formalismo dei Menglong, sia la lingua semplificata dei poeti degli anni ‘80. Sperimentano, così, una poesia caratterizzata talvolta da segni linguistici complessi,  frammenti e da uno stile narrativo, che ingloba e sintetizza  nuovi ambiti lessicali e inflessioni dialettali.
           Oggi, il poeta cinese globalizzato non si identifica più con la propria terra, ma neanche instaura più un rapporto di dipendenza con la cultura occidentale. I suoi legami con il contemporaneo sono stretti, e qualcuno di loro propone addirittura di “scrivere con il corpo”. Eppure non mancano riferimenti inconsci e agganci alla tradizione.
          La poesia della raffinata poeta-donna[1]  Zhai Yongming[2], il cui nome significa luce eterna, ruota attorno alla ricerca di un archetipo femminile –pur non essendo poesia di genere- e al disvelamento di oscurità interiori. Cerca l’  universale in storie individuali, quotidiane,  rappresentate come messe in scena poetiche in cui raccontare   “l’andamento non lineare delle vicende umane”. È nota per le sue lunghe poesie o poemetti, in cui dà grande importanza al ritmo, attraverso l’uso di rime interne e interruzioni che simulano il parlato. Uno stile, dunque, dalle caratteristiche narrative e teatrali, che ricorda quello dei canovacci degli antichi cantastorie, ma caratterizzato da una lingua ricca e piena di invenzioni, da immagini insolite e connessioni imprevedibili[3].
da “Lily e Qiong”[4]

Io nella cabina telefonica continuo a comporre il numero[5]

Quali cose voglio dire?  A chi?
La mia voce attraversa un enorme spazio
“Mille, diecimila chilometri così insensato
Un gocciare di saluti
Mette a dura prova la pazienza –tu e io

Siamo in una cabina telefonica ad un incrocio di strade
Penso all’amore ridicolo di un altro
Il mio viso sulla vetrina di spaventapasseri
Si confronta con i bei manichini agghindati
Apprezziamo la freddezza che c’è tra noi
I bassi salari parlano dopo la morte
Di nuove svendite
E di notizie di guerre
          La tenera Lily sta ricamando draghi e fenici
          Disegna una coppia di anatre mandarine
          Pensa al suo innamorato
          Venuto d’Oriente col cuore pieno di disegni politici.

              Il non-luogo di  Xue Di[6], altro poeta cinese della Diaspora, diventa, invece, spazio delirante da incubo. Per lui, la poesia d’amore è follia trasformata in versi, è testimonianza di ferocia primordiale; serve a  “ingessare le membra sconquassate del mondo”, a tenere insieme un mondo in pezzi. Questa la prima parte di lunghi versi, formati da immagini intense e compresse, immagini notturne di incubi e veglie di insonne, che si susseguono secondo libera associazione e analogia aperta. È un grido di rivolta contro la violenza di una lingua piegata a stabilire ordine e stabilità:                 

Smania d’amore[7]
           
Lasciami volgere in versi per te queste follie. Quando tu per prima hai visto la sua ombra oscura: i globi dei tuoi occhi a briglia sciolta, colpi di zoccoli risuonavano nel canyon del cranio.

Lasciami usare parole per distruggere la bestia selvaggia che si nasconde sulle rive del mio   sangue che scorre, poi gettare i versi ai tuoi piedi. Sii testimone della loro primordiale ferocia.

Lasciami usare la mia penna per infilzare sulla carta desideri primordiali che strisciano dietro i tuoi grandi occhi. Queste carte si aprono verso te come una strada. Tu lasci dietro un profumo animalesco quando corri.

Lasciami affondare i miei incisivi sulla tua collottola.
                         […]

                                                 ***********************



[1] Preferisce essere chiamata così, invece di poetessa.
[2]Zhai Yongming è nata nel 1955, in Chengdu, vive nel Sichuan. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia e vinto premi. Profonda conoscitrice della tradizione letteraria cinese, di temi filosofici e poetici contemporanei. Crede nel dialogo e nello scambio della poesia con altre forme d’arte. Apprezzata critica d’arte, è anche conosciuta per le sue istallazioni artistiche. Ha vissuto negli Stati Uniti e in Germania, ha viaggiato in Italia e in Europa.
[3] Ricorda Sylvia Plath, poetessa statunitense (1932-1963), che insieme ad Anne Sexton e Robert Lowell, ha dato grandi contributi alla poesia confessionale, che si ispirava al vissuto personale e si sviluppò negli anni ‘50 e ‘60 negli USA.
[4] In Claudia  Pozzana, La poesia pensante, op. cit. pag.167
[5] Zhai Yongming ,“Io nella cabina telefonica continuo a comporre il numero”, da Lily e Qiong,  in Claudia  Pozzana, La poesia pensante, op. cit.
[6] Xue Di nasce a Bejing nel 1957, poeta e critico. Ha pubblicato in Inglese raccolte e singoli lavori su riviste letterarie europee e nordamericane. Ricercatore all Brown University del Rhode Island (USA), ha ricevuto due volte dopo il 1989 il Premio Hellman/Hammett, sponsorizzato dalla Human Rights Watch. Nel 1999 è stata fermata dalla censura la pubblicazione delle sue raccolte in lingua originale.
[7]  Xue Di, “Smania d’amore“, da Flames,  trad. in Inglese di Alison Friedman,  www.thedrunkenboat.com2006.Trad. di Isabella Nicchiarelli. Per gentile concessione dell’Autore e della Traduttrice, Alison Friedman.

sabato 30 marzo 2019

SOTTO IL SEGNO DELLO SCIMMIOTTO(3)

(3) 

Se non fossero così stanchi e distratti d’altro, forse continuerebbero a parlare anche di Yang Lian[8], della sua profonda coerenza stilistica, del suo considerare la “tradizione come eterno presente”[9] e la poesia come spazio costruito con la lingua[10]. Una poesia i cui temi ricorrenti sono la lacerazione della materia, la sfilacciatura del tempo destinato a sopravvivere senza memoria e la storia sincronica, per cui passato e presente si confondono o non esistono. Poesia difficile, perché unica e al tempo stesso universale.
       Yang Lian sente da una parte il peso della sua lingua permeata di cultura millenaria e la mette in dubbio, dall’altra riconosce le potenzialità creative del cinese che permette di sospendere il tempo convenzionale e di creare spazi attraverso il coinvolgimento del lettore. L’esilio è, dunque, strettamente collegato alle sue riflessioni sulla lingua: da poeta della Cina, è diventato poeta in lingua cinese e infine un poeta che scrive – potremmo dire- in Yang-cinese- inglese, un poeta cioè che inventa una lingua personale per ogni poesia che scrive. Si può superare la condizione dell’esule lontano dal proprio paese[11], ma l’esilio dalla lingua – ha detto- è un processo costante.
I poeti Menglong avevano voluto reinventare una lingua per esprimere il nuovo pensiero, ma a metà degli anni ‘80 quella lingua era già un ammasso di macerie e anche Yang Lian pensa che i potenti ideogrammi siano diventati ormai “giocattoli per menzogne”, ma crede che una lingua in rovina possa rigenerarsi. Sa che ogni lingua è pericolosa, cioè incerta, inaffidabile, soprattutto quella cinese[12] - pena il silenzio e che non basta più l’Io del poeta a ricrearla. È necessario qualcosa di meno semplice.
        Dopo gli anni ‘90, cominciano ad apparire nelle sue poesie spazi bianchi; sono vuoti che esprimono lo scarto, la discontinuità, come se la poesia dubitasse della capacità comunicativa della lingua e si generasse proprio nel vuoto delle parole, “negli interstizi dove la lingua inciampa tra significante e significato”[13]. La raccolta di quegli anni “Dove si ferma il mare”[14] contiene poesie scritte durante il suo girovagare da esule, ed è strutturata come in  cinque cerchi concentrici che corrispondono alle cinque parti in cui l’opera è divisa, pur essendo un lavoro unitario che parte dalle tenebre iniziali per giu\ngere alla luce finale.
         Come Bei Dao, anche lui pensa che il poeta debba essere freddo, abbandonare un’emotività visionaria per giungere ad un intreccio coerente, quello che Yang Lian  chiama spazio poetico, una forte strutturazione spaziale per tenere insieme - e svelare- la mutevolezza della vita e il senso di spaesamento dell’esilio, originato anche dai ritmi angosciosi degli spostamenti  tra luoghi lontanissimi l’uno dall’altro[15]
Secondo Yang Lian, " Il poeta deve cercare il luogo dove fermare il mare, perché lì nascerà la poesia. Questo luogo lo troverà nell’ultimo verso dell’ultima parte del suo poema:
“questa è la riva da dove mi guardo prendere il largo”
         La preposizione ‘dove,’[16]presente nelle sequenze finali di tutte le sezioni del poemetto, è uno degli echi ripetuti , uno dei tanti dispositivi usati  per la costruzione dell’opera, strutturata come una sinfonia musicale, che ruota tutta attorno all’idea della possibilità che il mare venga fermato. Per fermarlo è necessario distaccarsene, mettere da parte tutto ciò che il mare suggerisce alla nostra emozione e dimenticare tutte le sue valenze simboliche[17].  La riva è, dunque, il luogo, il dove,  e  rappresenta “la presa di distanza del poeta dal suo stesso testo”; il mare si ferma dove il poeta si assenta e si assenta proprio grazie alla sua esistenza di esule senza radici. Questa lo ha reso estraneo a sé stesso, ma tale straniamento[18]  ha reso possibile la poesia come pensiero, anzi è divenuto la condizione necessaria per la sua esistenza. Non c’è più  il poeta e non c’è più un prima o un dopo, un tempo specifico, ma una molteplicità di sincronie. È la poesia il vero soggetto, la voce non è quella dell’autore, ma del suo divenire, quando si assenta dalla sua identità di autore. È la poesia il luogo dove si incrociano molteplici situazioni al di là del tempo.  L’assenza del poeta (essere molti, essere nessuno) è generatrice di nuovi modi di parlare e solo questa impersonalità di linguaggio può rendere la poesia universale.

Sogno  o  la terza riva di ogni  fiume[19]  

Il verde è il più crudele dei pugnali
ma un sogno è abbarbicato come un crimine ai campi di ieri
abbarbicati alle sedie di legno di ogni albero di pino
i morti cominciano la scuola
colui  che sogna      deve
seguendo una primavera scorrere in questo fiume
seguendo il fiume      battere la terza riva fra bianche ossa

questo bianco amore né esistente né illusorio
eppure costringe al rischio la rosa quotidiana
ti fa tornare al passato in mezzo ad un incendio
una musica eseguita fin dall'infanzia è sempre più spaventosa all'ascolto
ferita tenuta fresca dell'oscurità         come la stanza della notte
anche una mano premuta sul cuore ha un'eco
sempre più vuota        assediata dal fondo del fiume
solo in sogno riconosce       la malasorte che i poeti non riescono a evitare

è la tua stessa malasorte
l'intera vita è una notte ad occhi sbarrati
la terra che vedi in sogno sprofonda incessantemente sotto i tuoi piedi
quando affonda nella carne         è profonda come la caduta nel
vizio           sulla terza riva nessuno che dorma o si stagli

            Per trovare se stesso il poeta deve, dunque, estraniarsi dalla lingua, liberarsi dallo spazio e dal tempo (e nella lingua cinese sappiamo che è possibile), e realizzare la poesia in un mondo atemporale.
 L’atemporalità dei versi di Yang Lian si riaggancia alla grande tradizione della poesia cinese, in cui è tipico ricreare l’effetto di cancellare il tempo attraverso il decentramento o l’assenza dell’Io (in questo caso, in esilio) e di tutti gli Io del mondo. D’altronde, suo obiettivo dichiarato[20] è la riscoperta della tradizione poetica cinese nell’uso di parallelismi, allegorie e tutto quello che dona alla poesia un senso musicale, il solo che può aiutarci, come lettori, a districare il significato di quei versi difficili che rappresentano il sovrapporsi di diversi stati d’animo[21].  “Esplorare la tradizione ed esprimere l’oggi” - afferma Yang Lian, ovvero la tradizione non va ignorata e collocarsi nella tradizione non vuol dire restaurarla. Vuol dire farla rivivere individualmente. Ricrearla, per l’appunto.
[...]

SOTTO IL SEGNO DELLO SCIMMIOTTO(2) da...

(2)
      " ... La lingua è molto colloquiale, ma mantiene la ricca musicalità[1] di tutte le sue opere . Ricordo che Gao[2], parlando con la mia amica, ha molto insistito sull'idea di scrivere poesia per se stesso-  dice Zoé. E a Gordon torna in mente di aver letto una conversazione tra Gao e Yang Lian, durante un loro incontro in Australia, in cui i due artisti discutevano di esilio, lingua cinese e letteratura[3].
      In quella conversazione, tutti e due erano d’accordo nel riconoscere che gli scrittori che vivono in esilio diventano molto più esigenti con la lingua, ma, in realtà, scrivono per sé stessi. La lingua nell'esilio è come più pulita di prima e lo scrittore ha un approccio più creativo; quando è in esilio, è anche lontano dai propri lettori, e non ha critici –almeno inizialmente-   vive in una situazione di separazione, senza scadenze, in cui può rivedere, riscrivere. Insomma, l’esilio viene percepito dallo scrittore come il solo modo per preservare “i propri valori, la propria integrità e indipendenza dello spirito”.
        Gao rappresenta il  “formidabile incontro fra il patrimonio classico cinese,[… ]e la cultura occidentale”[4] e, durante il suo periodo di eremitaggio coatto,  volle creare una letteratura della fuga,  “una letteratura  di sopravvivenza spirituale”. Attraverso la scrittura[5], e quindi attraverso la lingua che è il suo strumento essenziale,  intese  ricreare il Mondo e la Storia, cercando di captare i segnali, decrittare i simboli, scovare un segno di continuità nell’eterno silenzio di solitudine in cui è immersa l’umanità. L’Io è sempre in uno stato di caos, in un flusso costante, ma ciò che interessa è la materialità dell’esistenza, la capacità di vivere. Si deve continuare a parlare e scrivere perché attraverso le parole si può conoscere se stesso e ciò che non si sa. La sua sperimentazione continua ancora oggi, perché egli crede fermamente che la cultura cinese sia ancora viva e capace di rinnovamento.
         Rispetto alla società e alla politica, Gao confessa che l’unica Cina che a lui interessa è quella culturale e spirituale che porta dentro di sé e preferisce un impegno marginale al coinvolgimento diretto, continuare cioè ad osservare senza smettere di criticare. È soprattutto nella sperimentazione linguistica e nella potenza dell’immagine che lui vede il possibile successo per il passaggio dalla tradizione alla modernità. Anche politica.
        -Ti dovrebbe proprio piacere. Ricordo che disse qualcosa come: “Io cerco la trasparenza della lingua, [..]. Isolo gli elementi indispensabili della proposizione principale e li trasformo in piccole frasi corte[...] perché le relazioni fra le frasi restino nascoste […] Scoprire la lingua per me significa anche ascoltare con estrema attenzione la musica delle parole e delle frasi. Leggo ad alta voce e registro ciò che scrivo di getto[6][…]La natura stessa della lingua è fonetica: la scrittura non è che una sorta di registrazione dell’orale. La lingua che cerco di creare è quella che possa permettere al lettore di  errare in contemplazione tra le parole[7].
           Gao ha tentato di esprimere in Cinese i diversi livelli della vita moderna, presentandoli in un flusso di linguaggio che ricorda il flusso di coscienza modernista di James Joyce, Marcel Proust e Virginia Woolf, perché lui crede che la lingua cinese, con la sua flessibilità, ricordi il movimento della coscienza che non è lineare, ma discontinuo.  Non si può scrivere in Cinese di psicologia, ma si può trovare la psicologia tra le righe, in quello che i cinesi chiamano il sorriso seducente della lingua: nel non detto.
         Zoé gli lancia un veloce sguardo e tace. Poi torna a spizzicare la sua quiche, mentre Gordon, anche lui silenzioso e pensieroso, si affretta a riempire i due bicchieri.
[...]
        



[1] Cfr. Yang Lian: “La musicalità (che si perde in traduzione) della lingua cinese è nascosta dietro la percezione visiva dell’immagine”.
[2] Cfr. Maria Cristina Pisciotta, introduzione a Gao, op.cit. “La poesia della lingua non proviene solo dalla tensione che l’espressione dei sentimenti provoca; l’attenzione visiva  e quella uditiva creano insieme la tensione che fa nascere la poesia[…] si devono ascoltare le parole che escono dalla propria penna”.
[3] Cfr. La lingua dell’esilio, da una conversazione tra Gao e Yang Lian, poeta cinese contemporaneo, del 18/09/1993, a Sidney, da Ciò che abbiamo guadagnato dall’esilio.
[4] ’Gao X., uno scrittore in esilio interiore’ di Maria Cristina Pisciotta, introduzione a Gao, op.cit., pag.9. La poesia classica cinese della sua formazione si è amalgamata con la letteratura francese, studiata in Cina e poi in Francia; Gao predilige la poesia surrealista che lui stesso ha tradotto in modo eccezionale, grazie alla sua grande sensibilità.
[5] Cfr. Gao,  La Montagna dell’anima,Rizzoli editore, Milano, 2002.Trad di Mirella Fratanico.
[6] Quello che  anche Flaubert  faceva in Europa più d’un secolo fa e che chiamava ’l’épreuve du gueuloir’, sottomettendo cioè  alla prova della lettura ad alta voce ogni pagina dei suoi romanzi.
[7] Cfr. Maria Cristina Pisciotta,  introduzione a Gao, op. cit.        
[8]Yang Lian nasce nel 1955 a Berna, Svizzera, da genitori, funzionari cinesi statali dell’ambasciata svizzera.Torna a Pechino dove pratica una costante dissidenza tanto da essere sottoposto alla rieducazione col lavoro manuale.Fuggito dalla Cina nell’ ’83, in seguito al suo sostegno al movimento dell’’89, gli viene tolta la cittadinanza. Attualmente vive a Londra e insegna in Svizzera.
[9] Cfr. www.poemlife.net/ open chat room
[10] Vedi conversazione con Gao, già citata.
[11] Cfr. Sabrina Merolla, Toccare il limite e superarlo, intervista a Y.L. del 24/06/2004: essere al margine non vuol dire rimanere in equilibrio tra due mondi, ma ’esilio vuol dire toccare il limite e superarlo’.
[12] Cfr. Yang Lian, Masks and crocodiles (Maschere e coccodrilli), raccolta di poesie in cinese e loro traduzione in inglese,a cura di Mable Lee, Wild Peony Press, University of Sidney, Australia, 1990.
[13] Cfr.Claudia  Pozzana, La poesia pensante.Inchieste sulla poesia cinese contemporanea, Quodlibet studio,2010.
[14] Negli anni 1992-93.
[15] E’ vissuto in USA, Australia, Nuova Zelanda.
[16]  In posizione finale secondo la costruzione della frase cinese.
[17] In cinese ‘mare delle parole’ vuol dire ‘dizionario enciclopedico’.
[18] In tutto il poema, il pronome personale ‘io’ compare raramente e solo in funzione di complemento oggetto (cfr. Pozzana, op.cit.)
[19]  Yang Lian,  “Sogno  o  la terza riva di ogni fiume”, da Prima parte di TenebreDove si ferma il mare, a cura di Claudia Pozzana, Libri Scheiwiller  - Playon, 2004.



[20] Cfr. pag 302, “internazionale locale”, 11/10/2003, trad. Anna Secher, in Dove si ferma il mare, op.cit.

[21] “quando non capisci, ascolta”...

venerdì 22 marzo 2019

SOTTO IL SEGNO DELLE SCIMMIOTTO (1) da "326 poesie dal mondo..." di Bruni-Nicchiarelli


SOTTO IL SEGNO DELLO SCIMMIOTTO[1]


            -È di qualche tempo fa...- dice Gordon, guardando, imbarazzato da tanta attenzione, l’articolo che Zoé tiene ancora fra le mani.  Poi scende dalla scaletta appoggiata alla libreria e le si avvicina.
           -Sì, di qualche anno fa, ma è ancora molto buono - lo rassicura Zoé sorridendogli- l’ho letto per caso, una volta in Italia; mi aveva colpito il tuo nome e avevo anche pensato di rintracciarti, poi sai come vanno queste cose... Lo potresti ripubblicare, magari aggiungendoci Yang Lian e Gao …  - si interrompe per passargli le dita tra i capelli e poi subito aggiunge cambiando argomento: - Senti, che ne dici? Togliamoci un po’ di polvere di dosso e mangiamo qualcosa. Non ce la faccio proprio ad uscire e, poi, mi sembri stanco anche tu; vedrai riuscirò a stupirti con una ricca cena da trasloco!
             Non passa molto che dal PC di Zoé un sottofondo di musica comincia ad insinuarsi discretamente negli spazi dell’appartamento che già accennano forme e ordini futuri, sebbene ancora impietosamente illuminati da nude lampadine. Le pareti bianche in attesa di quadri e fotografie captano ombre e luci estranee che occhieggiano spavalde dalle finestre aperte.  Stanchi, ma felici di poter chiacchierare ancora un po’, si sono finalmente seduti sulle due tripoline, davanti a uno degli scatoloni ancora pieni, messo a mo’ di tavolino. Sopra, fa da prima attrice la provvidenziale quiche di Louise, accompagnata da un piccolo vassoio di formaggi, qualche piatto di carta, due bicchieri e una bottiglia di vino. Zoé ha mantenuto la promessa.
           Più tardi, mentre ancora mangiucchiano un po’ di formaggio,  Gordon riprende la conversazione letteraria là dove l’avevano interrotta poco prima:-Gao è un nome che conosco, ma non sono sicuro di aver mai letto i suoi testi di poesia.
          -Infatti, di solito si conosce il suo teatro[2] oppure...  Insomma, ha sempre ritenuto che la poesia fosse un’attività privata, intima, non materiale da pubblicare. Ecco, un attimo solo…- e Zoé si alza a cercare qualcosa. Poi, tornando con in mano un sottile libretto, gli dice: -Guarda, questa è una chicca: versi scritti poco prima che gli fosse assegnato il Nobel. Un regalo di amici italiani.
    -Ah! Vedo che tu Gao lo conosci bene. Allora, mi potresti aiutare. In fondo, lui ormai è più parigino che cinese, e  ….
    -No, che c’entra? Gao vive qui[3], ma ormai l’unica patria è  quella dentro la sua testa. Né Cina né Francia.
    -Certo, certo.
    -L’ ho incontrato un paio di volte, qui a Parigi, quando ho accompagnato un’amica giornalista italiana al suo atelier, un vero laboratorio dove lui dipinge, gira le scene dei suoi film e prova con gli attori. Uno spazio pieno di libri d’arte, specchi, maschere della Commedia dell’Arte italiana e pitture su carta di riso. Un luogo pieno di suggestioni. E lui è un uomo magro, minuto che parla con voce sommessa e che ascolta attentamente … Comunque, tieni, dai uno sguardo. – E così dicendo accosta la tripolina a quella di Gordon per poter meglio leggere insieme: -Anzi, no: ascolta. Ecco, il primo lavoro è “una ballata molto speciale”[4],  una “Ballata contemporanea” come dice il sottotitolo e capirai da solo perché.
        E insieme leggono quei versi brevi raccolti in strofe brevissime, piene di immagini visionarie che si scontrano con altre tratte dal quotidiano; un testo scabro, essenziale, apparentemente frammentario, vagamente narrativo e con un forte senso di spaesamento. Una ballata speciale, in cui possiamo trovare le teorie poetiche dell’artista, le sue idee sulla lingua, varie riflessioni filosofiche e personali. Ecco un assaggio dell’incipit del poemetto dove l’ Io Poetico  si perde tra la serie di immagini che si generano l’una dall’altra[5] (vv.1-22):

Di un riccio
io parlo
parlo di un verme
s’insinua
scivolando lento

diciassette anni
fa
nel Colorado
c’era

un fiume
senza sirene
nessun annuncio di sventura
[...]
il giorno all’imbrunire
prateria
vento verde di prateria

una vecchia scarpa
e
un bambino
dimenticati ...

        Una poesia ricca di metafore, in cui il riccio del verso iniziale sta per il letterato che sceglie l’emarginazione. I versi sono organizzati in quartine irregolari, come se queste fossero state spezzate o allungate per poi venir ricomposte fino ad adattarsi alle sensazioni del poeta, e per poter, in questo modo, parlare della fine dell’amore, della cultura e della lingua, in un mondo dominato dal caso e dalla noia di chi non sa più chi egli sia.  Poesia piena di immagini quella di Gao, che nella vita alterna la scrittura alla pittura, due attività inseparabili per gli intellettuali cinesi tradizionali. Ecco, allora, immagini di pioggia incessante, di vuoto, di vento e dita affilate, di cicale stridenti, per esprimere la fine di tutte le speranze, ma anche poesia carica di sapori e suoni, con un ritmo cadenzato reso attraverso l’uso ossessivo di connettori, avverbi e particelle di negazione. Oppure, poesia fatta di lunghi cataloghi[6] “con l’ effetto di una nenia incantatoria”[7] (vv 141-168):

Il tempo che è casualità
non può lasciare tracce
rimane solo la memoria
l’ultimo vagone del metrò
un lieve tremare dei vetri
attraversa la baia

il seno
una cicatrice

non poter parlare
non vuol dire non aver parlato

non c’è domani
non c’è
non c’è

[...]
  
eliminati i bottoni
eliminata pure l’ipocrisia
eliminati i fardelli
resta solo la voglia di dormire



il tempo dell’infanzia è come un vecchio gatto
che ronfa sul cuscino della sedia

ti metti a raccontare storie narrate mille volte ormai
le mille e una notte e solo quell’una ha qualche senso

il demone cavalca in cima al muro
sferza con la frusta
una giumenta
sei tu quel demone!

... o domande incalzanti fino alla loro vanificazione, evidenziata dalla chiusa finale (vv  207-226):

sesso a parte
a questo mondo cosa resta?

malvagi demoni
a parte
esistono ancora le fiabe?

a parte te
io esisto ancora?

a parte te che mi vieni incontro ed io che le vado incontro
una donna che
non distingue il vero dal falso inventa solo menzogne
sottrarsi alle menzogne
ma che smarrimento

allora tu inganni io inganno
collezioniamo menzogne
ci  abbiamo confezionato tanti rifugi
ci abbiamo fondato un mucchio di convinzioni
colla forza della ragione
in tutta tranquillità di spirito

tu fai
uno sbadiglio
                               Parigi, 30 agosto 1991

       La lingua è molto colloquiale, ma mantiene la ricca musicalità[8] di tutte le opere di Gao[9]. Ricordo che, in quell’incontro, parlando con la mia amica, ha molto insistito sull’idea di scrivere poesia per se stesso-  dice Zoé e anche Gordon ricorda di aver letto una conversazione tra Gao e Yang Lian, durante un loro incontro in Australia, in cui i due artisti discutevano di esilio, lingua cinese e letteratura[10].

[...]
       


[1] Lo scimmiotto è uno degli animali dell’universo letterario e mitologico cinese; è presente anche nella tradizione religiosa e popolare, ed è oggetto di culto ancora oggi. Rappresenta l’irrequietezza e l’instabilità della mente umana, la rischiosa genialità connessa a successi e a fallimenti. Ne Il sogno dello scimmiotto, racconto di un viaggio avventuroso di un monaco alla ricerca di testi antichi, scritto nel 1640 e ispirato ad una delle più famose opere della letteratura cinese, Il viaggio in Occidente di Wu Chen’en (1500-1582), lo Scimmiotto, un misto di animale, uomo, demone e dio, è  uno dei compagni in cammino verso l’illuminazione. Nell’opera, tra avventure, fantasie erotiche, frammenti di satira politica e altro, si respira un’inquietudine esistenziale vicina alla sensibilità moderna.
[2]Gao è romanziere, drammaturgo, critico letterario, traduttore, regista teatrale e pittore. La produzione poetica di Gao è consistente, ma era ancora praticamente quasi sconosciuta sia in Cina che in Occidente ai tempi del Premio Nobel a lui assegnato nel 2000. Gao ha sempre ritenuto la Poesia un’attività privata, intima, senza finalità di pubblicazione. Durante la Rivoluzione Culturale, fu mandato in un campo di rieducazione e lì preferì bruciare un’intera valigia dei suoi manoscritti. Le prime pubblicazioni risalgono alla fine degli anni Settanta, quando gli fu permesso di viaggiare in Europa.
[3]Gao Xingjian nasce a Ganzhou, Jiangxi, nel 1940. In esilio a Parigi dal 1987, cittadino naturalizzato francese dal 1998, fu insignito Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres dal governo francese nel 1992. Le sue opere pubblicate in Cina nei primi anni Ottanta, vennero poi vietate  e Gao fu dichiarato dalle autorità cinesi persona non grata. A Parigi,  riuscì a completare il romanzo La Montagna dell’Anima, la storia di un uomo alla ricerca della propria pace interiore e del recupero del sé. Nel 2000 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura, per la prima volta attribuito a uno scrittore cinese.
[4]Cfr. Gao X., uno scrittore in esilio interiore di Maria Cristina Pisciotta, introduzione a Gao, Parlerò di ricci. Poesie (1991-1995), Fermenti Editrice, 2006; pag25.
[5] Gao, Parlerò di ricci (ballata contemporanea); in Gao, Parlerò di ricci. Poesie (1991-1995), op. cit.; cfr anche recensione di Raffaele Piazza, su www.vicoacitillo.it, 07/01/2007.
[6] Tecnica tipica dei testi taoisti.
[7] Gao, op.cit.
[8] Cfr. Yang Lian: “La musicalità (che si perde in traduzione) della lingua cinese è nascosta dietro la percezione visiva dell’immagine”.
[9] Cfr. Maria Cristina Pisciotta, introduzione a Gao, op.cit. “La poesia della lingua non proviene solo dalla tensione che l’espressione dei sentimenti provoca; l’attenzione visiva  e quella uditiva creano insieme la tensione che fa nascere la poesia[…] si devono ascoltare le parole che escono dalla propria penna”.
[10] Cfr. La lingua dell’esilio, da una conversazione tra Gao e Yang Lian, poeta cinese contemporaneo, del 18/09/1993, a Sidney, da Ciò che abbiamo guadagnato dall’esilio.