mercoledì 18 aprile 2012

VIRGINIA WOOLF, il merluzzo e le salsicce

Virginia Woolf
Diario di una scrittrice (1953)
BEAT, 2011

Questa non è una recensione: è soltanto una testimonianza di puro piacere provato nella lettura del testo, di profonda condivisione del sentire al femminile e di sorpresa nel riconoscere in queste pagine di diario vezzi e paure familiari a chi scrive, al di là dei tempi storici e della serietà di impegno. Una sorta di buco della serratura in cui osservare i modi e il groviglio di sentimenti della creazione artistica. Pagine di consigli (“[…] prima di togliere qualche cosa da un libro, bisogna metterci tutto.”, pag. 50), riflessioni sui libri letti e preoccupazioni quoti diane dell’artista. Nelle prime pagine del diario del 1919, eccola lamentarsi di  “Un’ora di scrittura al giorno […]” (pag. 18),  per poi, da brava borghese, calcolare le ore non sfruttate da poter usare nei giorni successivi, o il tempo impiegato a scrivere quelle pagine di diario (“Un tessuto a maglie lente , ma non sciatto; tanto elastico da contenere qualunque cosa mi venga in mente,[…].”, pag.25), nella decisa convinzione che l’abitudine di scrivere giornalmente sia un buon esercizio. “Poco importano le cilecche e le papere”, pag.25)! O quando in viaggio, i tempi della vita tolgono spazio alla scrittura (“E’ facile ripromettersi di prendere appunti, ma scrivere è un’arte difficilissima. Bisogna scegliere continuamente; e ho troppo sonno, e perciò mi faccio scorrere la sabbia tra le dita. Scrivere non è per niente un’arte facile; ma il pensiero evapora, sfugge qua e là.[…]”, pag.233).
 Che buffo leggere di Virginia felice di guadagnare dei soldi insperati, desiderosa di abiti nuovi, divertita dai pettegolezzi, così dolorosamente insicura del suo lavoro, e che alterna fasi di pura depressione, sconforto o irritazione per un giudizio appena tiepido, a fasi di infantile esuberanza per un commento favorevole. E quelle piccole fissazioni come i quaderni sui quali scriveva il diario e i suoi lavori, rivisti e corretti con dolore e fatica in tempi lunghissimi. Così tremendamente umana nei suoi temuti insuccessi, nell’aspettare l’approvazione del marito- primo e speciale lettore di tutti i suoi lavori, nel suo rimpianto per la scomparsa di tanti amici, nelle sue passeggiate urbane e campestri, nel suo orrore di quelle ultime pagine fatte di rovine, polvere, scheletri di case danneggiate dai bombardamenti, libri perduti, incessante e ossessivo rumore di incursioni aeree e esplosioni.
E la vita, con le sue urgenze banali,  che torna prepotentemente nelle righe dell’ultima pagina dei quaderni pubblicati. Le scrisse solo pochi giorni prima di togliersi la vita: “[…] No: non mi propongo nessuna introspezione. Noto la frase di Henry James: osserva senza tregua. Osserva l’avvicinarsi della vecchiaia. Osserva la voracità. Osserva il tuo stesso avvilimento. Con questo mezzo diventa utile. […] Tenersi occupati è essenziale. E ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e che devo preparare la cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che, scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce.” (pagg. 414-415) 
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martedì 10 aprile 2012

da SAFECRASH/ Cocciniglia



4. COCCINIGLIA

Quando la polizia arrivò trovò le tre donne immobili come statue di sale. La più grande delle due giovani fu la prima a riscuotersi e parlare. L’altra cominciò a guaire, poi a contorcersi a terra e a lanciare lunghi urli ripetuti. I vicini, accorsi all’arrivo delle due figlie nell’appartamento del quarto piano, si erano sistemati poco lontano dal letto, ma dall’ altra parte rispetto alle tre donne, come figurine di un presepe, col capo chino e, se ce lo avessero avuto, col cappello in mano. La madre non si mosse. Era come arrotolata su se stessa; con gli occhi sbarrati  e freddi. In mano stringeva un’incongrua bomboletta di metallo.
La stanza, nella penombra di una luce filtrata dalle serrande ancora semiabbassate, appariva con quel tanto di familiare disordine che si trova al risveglio di persone che a lungo hanno vissuto insieme. L’aria era calda e nonostante i vetri fossero sfessurati c’era ancora un sapore di sonno, sudore e vestiti tolti in fretta. Su tutto però si era posato quell’odore acre che il commissario Fabbri non tardò a riconoscere: GAYGAN 22 . Era quello stesso che lui usava ormai da due stagioni per contrastare quelle maledettissime cocciniglie che si erano impadronite del suo terrazzino spesso dimenticato.
Finchè Luisa era rimasta a vivere con lui se ne era occupata lei.
Luisa. Lui aveva creduto che con lei sarebbe durata per sempre. D’altra parte ogni volta e ogni cosa gli era sembrato che potesse durare per sempre. In polizia c’era arrivato tardi, dopo anni di lavoro nello studio dall’avvocato Sartori. Alla fine del’Università, non era più tornato a Penne dai suoi ed era rimasto a Roma, dapprima in quella stanza arredata, odorosa di gatti, dalle parti di Piazza Bologna, poi a Prati, in un bilocale con terrazzino, fortunosamente trovato grazie alle amicizie del vecchio Sartori.  C’era andato a vivere insieme a Luisa che allora ancora lavorava come segretaria dell’avvocato.
L’aveva amata come un disperato. Anche lei dopo un iniziale momento di diffidenza si era fatta prendere da questa storia e si erano dunque amati, desiderati per almeno dieci anni ma sempre con l’ansia di non voler soffrire. Ognuno dei due si era tenuto una specie di via di fuga, un gioco segreto scaramantico che permettesse di non lasciarsi andare fino in fondo.  [...]
Intanto era arrivato il medico per constatare il decesso dell’uomo rannicchiato sul letto, con il volto butterato e gli occhi spalancati dallo stupore. Fu una cosa piuttosto rapida. Il cuore. L’antiparassitario aveva forse accelerato un processo già in atto.
La madre volle restar sola con il commissario ed allora cominciò a parlare. Lentamente, per poi diventar sempre più concitata,  ma abbassando, al tempo stesso, il tono della voce fino a farlo diventare un sussurro. Fabbri seduto al tavolino della cucina con la donna accanto si piegava per cogliere quelle parole urlate a bassa voce. Erano un’accusa e una confessione. [...]
La donna continuò a raccontare, in un sussurro, che negli ultimi tempi non era più uscita di casa, e faticava a muoversi persino in quelle quattro stanze. Fabbri le si accostò ancora di più per udire le sue parole. E il sussurro riprese.
Quella mattina, - doveva essere il giorno in cui si era accorta che erano spuntati gli alchechengi e c’erano le cocciniglie sul rincosperma - lo aveva colto sul fatto. Semisdraiato a letto, nella semioscurità della camera con le serrande ancora abbassate... [...]
(CONTINUA)

domenica 1 aprile 2012

amore osceno



Villino Corsini, annidato tra gli alberi di Villa Doria Pamphili: pomeriggio di poesia, ma alla Casa dei Teatri la realtà e la scena si confondono.
Una coppia beckettiana avanti negli anni: lei immobile – davanti a me di spalle,  seduta su una carrozzella, un disordinato caschetto di capelli biondo pallido, appiccicati e stazzonati come dopo una settimana di influenza a letto-,  lui ordinato e pulito - in semplici abiti, assorbito dal suo compito. Curarla.
Sembra non accorgersi della gente intorno. L'ha sistemata alla fine della fila, un po' più avanti dei nostri posti, ha messo un plaid sulle sue ginocchia, le  porge da bere amorevolmente  versando qualcosa da un thermos  dentro a dei bicchierini di plastica usa e getta, pronto a fornire scottex o fazzolettini di carta. Poi, con una spazzolina a setole delicate come quelle per i neonati ,  comincia a spazzolarle con amore infinito quei poveri capelli. Infine, le  gira in tondo e si siede a lato, rivolto più verso di lei che al palco. Impossibile non vederli, impossibile non continuare a guardarli, impossibile non sentire lo struggimento di quel grumo di amore patetico. Impossibile non vergognarsi di aver profanato un’intimità.
Mi sono dimenticata di loro sino alla fine degli interventi. Presentavano l'ennesimo libro sul divino Carmelo. Forse la vicinanza al suo Immemoriale, il meccanico attivarsi dei miei ricordi legati alla visione dei suoi film o alle volte che l'avevo visto/ascoltato/amato in scena, o  la presenza al tavolo dei relatori di Manuela Kusterman (bellissima e dolce) con  i suoi racconti discreti sul quotidiano del grande Attore - la voce spezzata dalla malinconia di tempi lontani e dalla nostalgia di amici scomparsi- non so, ma mi sono ritrovata a pensare a Perla Peragallo e ad una  strana serata in una pizzeria di via Alessandria con lei e Leo de Berardinis, a bere insieme a loro finchè completamente brilli non si trascinarono tragicamente fuori scena- reggendosi l'un l'altra- verso casa.  
Alla fine della presentazione,  ci alziamo per sgranchirci un po’ in attesa del reading poetico in programma poco dopo,  ma mi ricade lo sguardo sulla coppia beckettiana. Lei è ancora  immobile, irrigidita. Lui le sta offrendo una banana appena sbucciata, poi le porge da bere, poi ancora sollecito le dà un fazzoletto. Parla a bassa voce. Non si sentono le risposte di lei, se mai ce ne sono.
I versi dei poeti e le loro provocazioni ci rubano di nuovo l’attenzione, sapienti performer di parole di carne, e di suoni che si rincorrono, ripetono e annullano in ritmi che lasciano echi e vibrazioni nelle nostre orecchie e nelle nostre teste.
Un cellulare suona caparbio e strafottente e nessuno per lunghi minuti risponde fino alla sua resa. (Beckett! Cos’era? In “Giorni Felici”? Campanello.Suono stridulo dall’alto.  Devo controllare.)
Ed è poco dopo, e poco prima della fine, che la donna sulla carrozzella comincia a tossire. Una tosse stizzosa, cavernosa, violenta che lui cerca di arginare, rendere meno invasiva coprendo la bocca di lei con un fazzoletto, asciugandole il sudore o le lacrime provocate dallo sforzo e dall’agitazione.  Eroici personaggi in cerca d'autore, bolla di amore oscenamente offerto a un pubblico distratto o imbarazzato. Forse André e Dora Gorz.
Fuori, la nebbiolina della sera sale dall' erba ancora rada, che maschera a malapena  odorosi grovigli di radici, e sta già cominciando a strangolare gli alberi lì intorno.  Respiro con riconoscenza l'aria inquinata da auto e motorini che mi ha di nuovo ripreso con sé all'uscita dagli archi della villa.