Una vita a disposizione -di quelle stirate e pulite, non tirate a lucido, intendiamoci, ma neppure rattoppate e logore, ecco- una vita ordinaria a disposizione -normale q.b.- e nessuna capacità di prenderla in mano. L'unica: starsene sul letto con arti pesanti e cervello rappreso, chiudere gli occhi, assopirsi, cullarsi, riaprirli, ripiombare nel sonno. Il corpo di pietra invecchiato precoce, le occhiaie di viola a corrompere i bulbi.
Le rare escursioni nel mondo esterno si
risolvevano puntualmente in fiotti violenti di nausea strisciante: da farsi
verdi in viso e rigettare le interiora tutte. Sempre più rare, perciò;
eccezionali.
Le ore di sonno di gran lunga superiori a quelle
di veglia dal punto di vista qualitativo: perché discostarsene, allora? Era giunto
a questa conclusione dopo anni -decenni: circa due- di tentativi dolorosi e
regolarmente falliti. Aveva tentato, appunto, di far capolino nei contesti più
disparati, di comparire in ambienti a elevata distanza strutturale, di
materializzarsi in scenari sempre nuovi e ulteriori, ma ogni volta si era
ritrovato schiacciato e mutilato, ridotto a creatura angolare, silente, ripiegato
sullo stomaco bruciante. Nessun'ambiente era in grado di accoglierlo, non uno.
Anzi, quello doveva essere il suo ambiente: mura domestiche e sopore dolce.
Testa pesante e porosa, che sprofonda e tuttavia fluttua, pietra pomice di
dormiveglia perpetuo.
Anni prima si era messo in testa di frequentare
l'università, che idea. La testa bassa e gli occhi appannati, comprensibili
nell'arco delle prime settimane, si erano poi imposti a norma perentoria,
infine abitudine cullante. Gli altri lo evitavano con cura, complice forse il
ridicolo abbigliamento rimastogli addosso dal fu liceo; lui sempre solo e gli
altri sempre in gruppo: gli schieramenti fissati e semplici. Se arrivava in
anticipo, temporeggiare soli accanto al gruppo vociante diveniva impresa da
faccia contratta; arrivare tardi, poi, era anche peggio: penetrare in aula con
passo incerto, la testa a terra e l'aspetto impietrito, articolare “è libero?”
con faccia da cazzo; in perfetto orario, poi, non arrivava mai.
In occasione degli esami semestrali, serpeggiava
solidarietà tangibile: di norma
percentuale irrisoria della vita emotiva studentesca, il sentimento in
gioco schizzava d'un tratto da falde profonde, dilagava e impregnava le pareti.
Allora si parlava da una panca d'attesa all'altra, si scambiavano appunti,
s'augurava il vecchio “In bocca..”. Man mano che trascorrevano le ore il
dialogo si discostava dai contenuti dell'esame: professori, corsi, alloggi,
futuro, i soldi, il caldo, l'estate che incalza. Oppure il freddo, quanto manca
alla laurea, l'università non funziona, l'erasmus lo farò. Ore d'attesa da
avvizzire e morire, lui solo, sulla panca, con il cranio tra le mani. Benché
ascoltasse a tratti con interesse i molli scambi conversazionali di quegli
altri, intervenire o -see!- essere interpellato era del tutto escluso, non
previsto, neppure alla lontana. Alla larga, quello è strano, ha il naso lungo,
che s'impicchi. Un po' di nausea, ma in fondo ne godeva.
Anni prima
ancora si era messo a frequentare serate fosche da Babilonia urbana. La
musica martellante da casse scure lo coinvolgeva senza ragione, i prezzi –
cinque euro, a volte tre, “sottoscrizione, daje!” alcune sere- lo avevano
pervaso d'un sentore illusorio di accoglienza democratica, l'abbigliamento da
skater e cappuccio calato se l'era sentito naturalmente indosso: ed eccolo a
varcare soglie di vecchie rimesse occupate, scuole cadenti ed ex-cinodromi
nebbiosi. Gli ambienti cupi e ferrosi lo rassicuravano, i tubi metallici lo
avvolgevano a nido e i capanni fangosi gli sapevano di gioco; la gente intorno,
le trecce ovunque e i lobi sformati, le scarpe enormi e le spalle ricurve, la
stessa gente agonizzante al mattino, gli parevano disposti a grande specchio
riflettente. Ed eccolo gioire, ambire, imitare..
Ma quel fulgore da riconoscimento, da entusiasmo
da inizi, di inizio serata, si era velocemente raggrinzito e sfilacciato dal di
dentro. A pelle sopravviveva, appena arrivati in loco -il fango a terra, gli
sguardi biechi- ma si esauriva allo scoccare dell'ora. Mezz'ora, poi. Si
trattava, alla fin fine, di andare ad agitarsi tra gente sconosciuta, in sedi
turpi e repellenti, tra bagni chimici di plastica blu e folla assordante di
casse stordenti. “Emmee ddìì, 'nfetamineee”: mercati notturni di merci malate,
che scavano e corrodono, plasmano e forgiano, e pungono a fondo. Non vedeva
l'ora di fuggire, a quel punto: si sentiva un intruso -idiota- tra idioti
integrati. E poi calca, sudore, spazio nullo. A quel punto, non si faceva altro
che uscire a far festa senza averne voglia, e con gente dubbia, con cui il
sorriso era sempre da forzare. Infine, alle solite: sagome stramazzate al
suolo, all'alba, a mo' di creaturine rantolanti di penombra. Anche lui
distrutto, ma troppo intruso per esserlo davvero.
La felpa identitaria e il sopracciglio destro
inanellato persistevano eterni a carezzare un corpo ormai adulto; monito dal
passato, d'accordo, ma soprattutto conservatorismo pigro. In ultima analisi,
null'altro che travestimento odioso da tossicomane vecchia scuola:
controproducente.
(Emilio Smunti, 2011)
-CONTINUA-
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