domenica 28 luglio 2013

FERRUCCIO BRUGNARO, poeta- operaio




TUTTI ASSOLTI AL PROCESSO
PER LE MORTI AL PETROLCHIMICO
 
Lavoravamo tra micidiali veleni
sostanze terribili
cancerogene.
Non affermate ora
furfanti
ladri di vite
che non c'era alcuna certezza
che non c'erano legislazioni.
Non dite, non dite che non sapevate.
Avete ammazzato e ammazzate ancora
tranquilli indisturbati
tanto
il fatto non sussiste.
I miei compagni morti non sono
mai esistiti
sono svaniti nel nulla.
I miei compagni operai
morti
non possono tollerare
questa vergogna.
Non possiamo sopportare
questo insulto.
Nessun padrone
nessun tribunale
potrà mai recingerci
di un così grande
infame silenzio.




Ferruccio Brugnano è il poeta -operaio, nato a Mestre nel 1936, autore di questa poesia, di questo urlo sincero e coraggioso contro l'amata fabbrica assassina e inquinatrice. Conosce bene il Petrolchimico di Porto Marghera, perché lì ha cominciato a lavorare giovanissimo dai primi anni Cinquanta e lì ha lottato come attivista sindacale, condividendo generosamente in mezzo a cortei, assemblee e piazze anche i suoi versi in rivolta, ciclostilati e distribuiti come volantini, o affissi come manifesti sui muri di Venezia e Roma nel '90 e '9i per urlare contro la guerra, o dipinti tra i murales di Orgosolo. Fu durante gli anni Settanta che i suoi scritti cominciarono ad essere pubblicati in Italia  e poi in seguito tradotti e pubblicati in alcuni paesi europei e negli Stati Uniti. L'archivio delle sue opere -conservate in scatole e scatoloni di cartone- è ospitato dal 2005 presso il Centro di Documentazione di Storia Locale di Marghera(VE).








Ferruccio Brugnaro è ormai in pensione come operaio, ma continua nei suoi reading  a parlare di fabbrica  e di vita con voce chiara e appassionata:


MATTINA DI MARZO

                                 Gabbiani, schiere foltissime
                                                 di gabbiani
ora imbiancano gli acquitrini
            che circondano le fabbriche.
                                  Il vento li muove, li agita
                                                  come grossi fiori.
                                   Il nostro sangue, il nostro cuore
                                                   acceso
                                                  ora li segue attentamente.
                                   La nostra volontà, la nostra carne
                                                          tutta ferita
li guarda avida
ascolta intensamente il loro grido
                          il nostro grido
                           di amore, di vita
su questa terra
                   sempre più nera,
in questo silenzio di ferro.

Nel suo "Ritratto di una donna", tradotto in inglese dal poeta e suo amico Jack Hirschman, ci offre un canto d'amore concreto e struggente. i versi sono pieni di Maria, la donna amata che lavora a tempo pieno ma che la vita non distrugge perché lei è più forte della vita:

[...]
Parte alle otto
parte a mezzogiorno
parte alle dieci e mezzo
parte alle due del pomeriggio
         parte alle quattro.
Maria parte alle nove
                         alle dieci
                                alle undici.
la chiamano scuola a tempo pieno.
Quando ritorna non è facile
                  saperlo.
         Può anche tornare
all'una
        all'una e mezzo
                  alle sei
                         alle sette
                                alle otto.
Il ritorno è mistero.
              Ma quando ritorna
               quando ritorna
                    è così bello
                da impazzire.
       
(da "Ritratto di donna", Campanotto editore 2011)

isabnic2013.

sabato 27 luglio 2013

L'ULTIMO RACCONTO (2) da I Racconti del Palazzo sul Viale Alberato

un altro assaggio? :-)

L'ULTIMO RACCONTO

Nessun suono di presenze, di qualcuno a cui poter chiedere aiuto. L’appartamento del mezzanino, quello più vicino al posto dove mi trovavo, era sicuramente vuoto. Le due ragazze che ora l’avevano preso in affitto, sostituendo Sasà e i suoi amici, erano già partite da qualche settimana per tornarsene a casa per le vacanze estive. Fino a settembre nessuno le avrebbe riviste. L’unico rumore, forse, era quello di qualche autobus in lontananza e di un gocciolio leggero da qualche parte della cantina. Dovevo almeno muovermi, far qualcosa.
Decisi allora di raggiungere il nostro vano cantina, il nostro loculo ingombro dove cercare la famosa borsa, un sacco fatto di stoffe diverse e ricamato, che qualcuno mi aveva riportato da un viaggio a Istanbul e che dopo tanto tempo manteneva un profumo di patchouli che mi ricordava i vent’anni. Passai dalla zona caldaia, quell’enorme locale, cuore un tempo pulsante della cantina, dove ancora c’era, ormai arrugginita, la  caldaia del vecchio impianto di riscaldamento, che al ricordo dopo anni si sarebbe trasformata nella mia memoria in rossa e fumigante  fucina, dall’odore acre di gas e contenitrice di misteri. Molto più prosaicamente c’era un accumulo di metallo in un angolo, qualche tubo con fasce o guarnizioni in gomma nera, e un perenne rigagnolo d’acqua marrone sul pavimento di terra. La superai per raggiungere, aldilà di un breve corridoio di cui ignoravo la fine, il nostro spazio. Armeggiai un po’ per aprire, ma qualcuno doveva aver spento la luce o era scaduto il tempo programmato.  La luce a tempo si spengeva, come al solito nel momento di maggior bisogno. Con la torcia  illuminai quell’ interno impraticabile per la tanta roba accatastata disordinatamente. Quasi un tuffo dentro l’albero cavo all’ inseguimento di Messer Bianconiglio.  Anni di vita, viaggi, scatoloni di appunti, vestitini di bimbi appena nati, un ridicolo mappamondo da illuminare, giocattoli, quaderni e disegni, calosce di gomma e costumi di carnevale. La borsa era lì dove l’avevo poggiata l’estate prima, ancora riconoscibile per il suo profumo esotico che leggermente richiamò la mia attenzione. Non mi sarebbe servita a nulla, visto che la festa alla quale sarei voluta andare per me non ci sarebbe stata.
 Richiusi il grosso lucchetto. Almeno la torcia, che un pensiero meccanico mi aveva fatto infilare in tasca prima di uscire da casa, ce l’avevo. Il cono di luce accarezzò velocemente la leggera patina biancastra e umida che copriva quei corridoi di cui non si vedeva mai la fine con la loro sequenza di porte chiuse con la piccola inferriata in alto. Il mondo sembrava molto lontano. Forse laggiù dietro al muro c’era il negozio della cinese, la Dr Wong, la curatrice dei nostri mali. Un’altra vita. Forse già in ferie.
 Qualche gocciolio mi avvertì che stavo ritornando nella sala della vecchia caldaia e fu allora che cominciarono a suonare le campane. Un buon segno. Era l’ora della funzione, l’inizio ufficiale della festa del Santo. Quest’anno avevano detto che ci sarebbe stata anche la famosa cantante sul palco costruito al centro dei giardini nella piazza. Felici i vecchi e i pensionati, felici gli stranieri di passaggio e quelli stanziali. Ormai saranno le otto. Sicuramente qualcuno si chiederà come mai non sono ancora salita. Antonio, no. Se anche ha provato a chiamare, immaginerà che non sono a casa e che il mio cell stia disperatamente squillando al chiuso di una borsa, sotto la felpa arrotolata lì dentro, lo sciarpino che in caso di umidità può proteggermi la gola, i quadernetti per gli appunti- eterni compagni di ogni uscita, le chiavi , il pacchetto di fazzoletti di carta, gli occhiali da vista e magari un libro. Perché non si sa mai, me ne porto sempre dietro uno, magari piccolo.
Forse fu quel suono che mi distrasse, quella tangibile prova dell’esistenza del mondo fuori di lì, forse quel fondo disuguale in terra battuta, forse quel paio di incongrui zoccoli che avevo ai piedi, il fatto è che mi ritrovai improvvisamente giù, accartocciata con tutto il peso del corpo su una caviglia dolorante, incapace di alzarmi e senza più la torcia in mano.  Non sarebbe durata a lungo, comunque.
Già  allora, che ancora funzionava, cominciava e essere fioca e offriva una luce irreale lì da terra dove era rotolata. Lontano dalla mia portata, dalla lunghezza del mio braccio. Muovermi sembra ormai impossibile. Mi accorsi che avevo il cuore in subbuglio. Mentre torcevo il naso per l’odore di muffa, tentai di trascinarmi verso la luce a terra o verso l’uscita, ma la caviglia doleva e in quella penombra mi sembrava di oscillare tra il sogno e la certezza di esser sveglia. Mi muovevo faticosamente a tentoni, rabbrividendo quando entravo in contatto con qualche superficie sconosciuta. In quel ventre oscuro sembrava alla mia fantasia eccitata che di tanto in tanto si rincorressero grida soffocate, squittii, brontolii, gocciolii, rumori bassi e misteriosi tra esalazioni gassose, forse immaginate. Dietro le superfici corrose delle pareti un tempo bianche, si avvertivano forse presenze del passato. Dovevo rimanere sveglia e dimenticare quel senso di oppressione, quella tetra calma di morte, simile all’insopportabile tristezza di un cielo basso di nuvole. Il cono di luce a terra si affievoliva sempre più.

(isabnic2013)



venerdì 26 luglio 2013

L'ULTIMO RACCONTO da I Racconti del Palazzo sul Viale Alberato

sì, lo so. Avrei dovuto finire il post sul poeta operaio e le varie recensioni di libri letti ultimamente.
Stasera preferisco pubblicare l'incipit dell'Ultimo Racconto. Ve lo affido. Chissà se riuscirò a continuare e a concludere.

L'ULTIMO RACCONTO

L’atmosfera opprimente e l’umidità appiccicosa di quello spazio quasi senza luce parevano incollarsi addosso come un sudario. Ormai era andata.
‘ Cazz.. ma come è possibile? Tutta colpa di quella borsa del cazzo. Ma chi se l’aspettava? Faccio tutto pensando ad altro. Magari tra un po’ si chiederanno che fine ho fatto. Quando salirà? Come mai è in ritardo? … Non ho mai fatto tante cazzate tutte insieme. Ecco, chiusa dentro. Io qui dentro e la chiave rimasta fuori.’
 La tiritera di auto-recriminazioni seguiva il ritmo delle mie pulsazioni che acceleravano sempre più, ma non c’era altro da fare che aspettare.

 Una yale, la chiave. - Mi raccomando, una volta entrata toglila subito dalla toppa che, se rimane lì e chiudi, non puoi far altro che telefonare perché qualcuno scenda ad aprire. E rimanere chiusi dentro non è piacevole, aveva aggiunto mio marito quasi con cattiveria e presagendo la possibilità che avrei lasciato che la cosa accadesse.
               Chissà quante volte me lo aveva detto.
 Beh, l’avevo fatto, cioè mi era successo e naturalmente il cellulare era rimasto in ricarica sul tavolinetto all’ingresso, quello instabile che avremmo dovuto riparare da tempo, quello con le foto sopra. Poi, comunque, chi avrei potuto contattare? Antonio se ne era andato per qualche giorno; voleva riflettere-  aveva detto. Una figlia era in vacanza in un’oasi  naturalistica e dunque con telefono irraggiungibile, fuori campo; l’altra, quella più grande, si trovava in Giappone, dove sarebbe rimasta almeno  fino alla fine di Settembre, e  la possibilità di parlarci, o scriverle, prima di lunedì, ovvero due giorni dopo, era nulla. E inoltre, avercelo lì il pc! sia pure senza connessione, per scribacchiare durante l’attesa magari qualche riga e avere davanti quello schermo confortante, piccolo è vero, ma luminoso. Almeno finché fosse durata la batteria. Sette ore, avevo sentito dire, ma io non l’avevo mai fatta scaricare fino in fondo. D’altra parte ero quasi sempre a casa quando scrivevo. Altrimenti, qualche volta mi  capitava di scrivere in  treno quando andavo a trovare mia madre. Il viaggio durava più o meno un’ora e mezzo, giusto il tempo per controllare la posta e rispondere -se era il caso, ma il più delle volte a me piaceva guardarmi intorno, osservare i miei vicini di viaggio, guardare fuori dal finestrino, anche se quel paesaggio in fuga lo sapevo quasi a memoria. Lavoro di scrittura: niente.
 Era agosto quando rimasi bloccata giù in cantina e mi venne subito da pensare che in quel periodo, lungo il percorso verso il paese dove viveva mia madre, il verde era sicuramente tutto bruciato; in quella torrida estate anche i campi di girasoli, che fiancheggiavano la ferrovia per kilometri e kilometri, dovevano essere diventati tutti marroni e le colline completamente ingiallite, tranne qualche misero ciuffetto d’erba privo di speranza. Dicevano in quei giorni che le temperature non avevano alcuna voglia di diminuire, eppure – mi venne in mente- in quel periodo dell’anno, quando ero ragazza, era stato solitamente il momento dei grandi temporali, nubifragi e allagamenti. Mi ritrovai anche a pensare poi, mentre ero lì chiusa in quella grande cantina, in quell’apparente silenzio affollato di pensieri, che se in quello stesso momento il mondo stesse andando a rotoli, lì non sarebbe arrivata nessuna notizia, niente pc niente telefono. Che tempo avrebbe fatto l’indomani?  Quale il tasso di umidità all’esterno?  Cosa avevano detto a proposito dell’anticiclone? e  l’afa? Pensai  alle mie piante in balcone che avrebbero sofferto. Qualcuna si sarebbe seccata. In fondo, però, la sera prima le avevo innaffiate abbondantemente, ma loro, conoscendole, sicuramente si sarebbero aspettate altra acqua decalcificata con un goccio d’aceto anche quelle sera. - Troppo buona tu. Le vizi, vizi tutti. Troppo buona, poi quando un giorno non ti va e non fai quello che si aspettano, tutti rimangono male. Ti preoccupi troppo degli altri. Devi pensare più a te stessa. Devi coccolarti. – mi sembrò di sentire la voce di mia madre che me lo ripeteva spesso, o quella di qualche amica  quando mi vedeva che ero un po’ giù e poco felice.
Intanto lì al chiuso mi sentivo stringere la gola da quell’umidità bianca e polverosa.  La cantina, a cui si accedeva dal sottoscala, era molto grande e spaziava per tutta l’ampiezza del palazzo, suddivisa in stanzette collegate da corridoi stretti e contorti che partivano quasi a raggiera da un enorme spazio centrale occupato in un angolo dalla caldaia di un vecchio impianto gocciolante di riscaldamento, non più in funzione. Le poche lampadine erano fioche per la patina grassa di sporco accumulato intorno a loro,  le pareti un tempo bianche erano ingrigite e il  pavimento in terra battuta portava i segni di molti passi.
Era una cantina  malata con i muri magicamente coperti da un velo fungoso che se toccavi era polvere leggera biancastra e dall’odore pungente. Sui lunghi corridoi poco illuminati si affacciavano delle porte protette da enormi lucchetti e catene con i quali i condomini chiudevano le stanze usate  come ripostigli. Tra le grate metalliche che ferivano la parte superiore delle porte si intravedevano ombre scure di armadi e ripiani stracolmi di roba dimenticata, ricordi, forse, o cose che in casa non servivano più o che non si riuscivano a buttare, quelle inutili o quelle che possono sempre servire.
Che potevo fare lì? Chi poteva accorgersi della mia scomparsa? Accostai l’orecchio alla porta, inesorabilmente chiusa e priva di maniglie,  in cerca di qualche rumore, qualche voce familiare, qualche segno di vita. Ma nulla.
Possibile che fossero già tutti saliti?

(isabnic2013)


venerdì 19 luglio 2013

PADRE-MEDEA di Ibis Kan

il puzzo di carne bruciata
annerisce anche l'aria, mentre
l'anima di piombo
si contorce tra la cenere
e sfrigola sotto lacrime
tardive, mentre
la voce ruvida non fluisce
e si blocca in quell'urlo
strozzato di fiera, mentre
le palpebre coprono
indicibili misteri.
Padre-Medea, NON SALVARTI!!

(ibiskan, 2013)

mercoledì 10 luglio 2013

VOLEVA ESSERE UN SINDACO NORMALE

Maria Carmela Lanzetta, sindaco dal 2006 di Monasterace (RC), annuncia, in una lettera, alla Presidente Boldrini l'intenzione di lasciare il suo incarico di frontiera. L'anno scorso aveva ritirato le dimissioni, per senso di responsabilità, ma ora non può far altro che dichiarare la sua delusione e l'impossibilità di poter amministrare il Comune in una situazione di  completo dissesto finanziario, " una burocrazia inadeguata, i tagli continui, al punto che- dice- anche cambiare una lampadina diventa un'opera titanica".Il tutto rinunciando alla propria retribuzione e reinvestendola nell'amministrazione. Il tutto con il rischio continuo di poter perdere la vita, come altri amministratori locali in Calabria.  
Perché la politica l'ha abbandonata?
(vedi Giuseppe Baldessarro, Lascia il sindaco anti 'ndrangheta, La Repubblica, martedì 9 luglio 2013/pag.17)

venerdì 5 luglio 2013

GLI DEI di WALTER SITI allo STADIO PALATINO

Tardo pomeriggio sul colle Palatino. Si aspetta un po', ma è gratis e tutte le persone che lavorano nel sito- custodi, accompagnatori,etc- sono gentilissimi. Roma con il suo traffico, il rumore, il nervosismo diffuso è lontana, laggiù, sotto un cielo da tramonto rannuvolato. Vedo per la prima volta nella mia vita lo Stadio Palatino e cammino a fianco di quei grandi arconi, mentre il volo e i richiami dei gabbiani graffiano il cielo grigio che si posa su quelle antiche mura. Son venuta per questo, ma anche per rubare qualche occhiata da gettare sulle opere di artisti contemporanei in mostra qui (Post Classici a cura di Vincenzo Trione) e soprattutto per ascoltare Walter Siti, protagonista di uno dei sei incontri (Analogie) durante i quali i sei scrittori invitati rifletteranno sul rapporto tra arte e classicità, sul luogo e sulle opere. Ha introdotto la bravissima Raffaella De Santis.


Siti ha scelto di parlare della "Presenza attuale degli dei classici", intanto perché è un tema e una cifra stilistica a lui congeniale, poi perché in tempi in cui si sperimenta "l'evaporazione dei padri", è molto meglio entrare in relazione con più dei piuttosto che con uno soltanto. Il mondo dei miti "accade sempre", annulla il tempo e la morte, permette di identificarci in figure attraverso le quali raccontare le nostre ossessioni. Tra queste il desiderio, il quale si collega naturalmente al  mito, perché è rapina, non segue le leggi del senso di responsabilità e della colpa. Tra gli amanti ci può essere soltanto reciproco laceramento, non forme mediate.Il desiderio è senza limiti, come gli dei che non lavorano, sono incestuosi e non se ne dolgono. Siti è divertente e commovente quando parla del suo dio, anzi semidio, preferito. E' Ercole, forte, goffo, ridicolo, generoso, leale e credulone. E' bello seguirlo in questa breve lezione, l'odore di mentuccia del prato dello Stadio dove siamo seduti a ascoltarlo ci impregna il corpo e la mente.
Unico rimpianto è di non esser riuscita a vedere l'istallazione di Kounellis lì in mostra, un quadrato vuoto a terra, i cui lati sono fatti di frammenti raccolti lì intorno. Siti ci racconta l'opera come la sua preferita, dicendo che le schegge dei miti lasciano una cornice vuota, che deve essere riempita dal rimosso.  Ed è lì che si capisce la presenza degli dei, ancora tra noi.
(gogo2013)

L'amore ai tempi di ROGER MCGOUGH

I tre poeti di Liverpool, Adrian Henri, Brian Patten e Roger McGough, voci pop dissidenti della Gran Bretagna degli anni Sessanta, divennero famosi per la loro antologia "The Mersey Sound" (1967), di cui all'epoca,  cifra assolutamente ineguagliabile, furono vendute  "più di un quarto di milione di copie", come informa il risvolto di copertina dello smilzo volume della Penguin (seguito da altre due fortunate ristampe del 1983 e del 2007). Ognuno con la propria impronta personale, i tre poeti componevano poesie semplici, ancorate al contemporaneo, scritte con la lingua del parlato tolta dalla sua quotidianità, ma sfruttata in tutta la sua vivacità e polisemia. Poesie da condividere subito e fisicamente, magari accompagnandole con brani musicali, in mezzo a un pubblico di coetanei .  

Roger  McGough (Liverpool 1937), il lungo e dinoccolato "santo patrono della poesia" (secondo Carol Ann Duffy), musicista, paroliere e scrittore per bambini, è sempre stato l' ottimo performer di reading coinvolgenti. Una delle sue poesie più conosciute 40-Love veniva da lui recitata muovendo la testa da destra a sinistra come uno spettatore di un'immaginaria partita a tennis:

40-Love  [1]                     
middle                   aged
couple                    playing
ten                         -nis
when                      the
game                      ends
and                         they
go                           home
the                          net
will                         still
be                           be-
tween                     them[2]

  E' una poesia concreta,  la cui forma grafica suggerisce visivamente il senso della stessa. Venti parole monosillabiche, sistemate in due colonne, a rappresentare il movimento della palla in un campo da tennis, come suggerisce il titolo[3]. E quello spazio in mezzo,  una rete invisibile  tra i giocatori  -forse  una coppia non più giovane? visto che 40-Love possiamo anche intenderlo come ‘Amore a 40 anni’- separati da una barriera di quotidiana incomunicabilità (l’uso dei monosillabi). Alcune rime scontate  e l’uso del tempo presente, che in inglese sottolinea la ripetitività di un’azione, rafforzano il tono di noia all’ insieme.  Una perfetta immagine dell’amore ormai finito!
Anche in un'altra sua poesia, "All'ora di pranzo (da un momento all'altro)" (At Lunchtime), si parla d'amore, ma l'atmosfera è quella di una gioiosa epidemia di desiderio:

Quando il bus frenò all'improvviso
per evitare di metter sotto
una madre e il suo bambino per strada,
la signorina col cappello verde seduta lì davanti,
fu scaraventata su di me
e per non perdere l'occasione
cominciai a farle il filo

All'inizio resistette,
disse che era mattina presto,
e che aveva mangiato da poco,
e che comunque mi trovava repellente.
Ma quando le spiegai
che vivendo in un'età nucleare
il mondo sarebbe finito all'ora di pranzo,
si tolse il cappello verde,
mise il biglietto del bus in tasca,
e accettò le avances.

I passeggeri,
e ce n'erano parecchi,
erano allibitiesorpresi,
e divertitieinfastiditi.
Ma quando circolò la voce
che il mondo stava per finire all'ora di pranzo,
misero l'orgoglio in tasca
insieme ai biglietti del bus
e cominciarono a pomiciare.
E perfino il controllore,
sentendosi escluso,
salì in cabina,
e cominciò una specie di movimento con l'autista.

Quella notte,
sull'autobus al ritorno,
eravamo tutti un po' imbarazzati.
soprattutto io e la signorina col cappello verde.
E tutti cominciammo a dire
in modi diversi
di come eravamo stati sciocchi e affrettati.
Ma allora, da pezzodifurbo quale son sempre stato,
mi alzai e dissi che era un peccato
che il mondo  non finisse quasi a ogni ora di pranzo,
e che potevano sempre far finta che accadesse.
E poi successe...

Veloci come un fulmine
tutti cambiammo partner,
e subito il bus divenne un fremito
di bianchi corpi  dismessi (sotto naftalina) che facevano cosacce.

E il giorno dopo
e ogni giorno
su tutti i bus
in ogni strada
in ogni città
in ogni paese

la gente finse
che il mondo stesse per finire all'ora di pranzo.
Ancora non è successo.
Anche se in qualche modo sì.

Era l'Annus Mirabilis 1967 e se i  signori Samsa,  invece di quel tranvai che avevano preso, sollevati per essersi infine liberati del figlio scarafaggio, fossero saliti su quel bus, non avrebbero certo guardato silenziosamente e pieni di aspettative di normalità la loro figliola quasi da marito.
(isabnic2013)


[1] Roger McGough, 40-Love (1961), su http://home.planet.nl
[2]“40 a zero” oppure”Amore a 40 anni”: ‘Coppia  / di mezz /’età /che gioca /a ten/nis /quando il /gioco/ finisce/e/ loro/ tornano /a casa/ la /rete che li divide sul campo / rimarrà/ ancora/ tra/ di loro’ 
[3] 40-Love indica nel tennis  un punteggio pari di 0 a 0 alla fine di un breve gioco.

mercoledì 3 luglio 2013

WALTER BENJAMIN e il FESTIVAL DELLE LETTERATURE 2013 a Massenzio


Walter Benjamin diceva che può accadere che l'uomo si ridesti un mattino e si ritrovi trasformato in un insetto, ovvero- spiegava- la sua estraneità si è impadronita di lui. E stamattina, dopo la serata di ieri a Massenzio, ho riconosciuto al risveglio quello stesso senso di insettiforme disagio. Avevo perso le altre serate, ma questa del 2 luglio con la scrittrice Zadie Smith e il filantropo Bunker Roy l'avevo segnata in rubrica con tre asterischi (da non perdere!). Volevo capire, e il contesto mi sembrava quello giusto, se quelle testimonianze di sogni, progetti, innovazioni e cambiamenti, potenziali costruttori di nuove realtà, stessero anche trovando la loro voce narrativa, poetica, drammatica, musicale, artistica,etc E' un festival letterario, no?
Bunker Roy, felice e innocente narratore, ci ha raccontato il suo sogno realizzato del Barefoot College, ci ha parlato di nuova filantropia sulla quale rifletterò, per superare la mia naturale diffidenza, mentre ripenso alle parole pronunciate dal Dalai Lama in visita al college, e riportate dallo stesso Roy, che suonavano più o meno così: "Da quello che vedo, posso dire che in pratica il tuo progetto è buono, ora qualcuno dovrebbe dire che è buono anche in teoria".
La riflessione di Zadie Smith sulle parole abusate Creatività &co , sulla tendenza ad appiattirsi sul prodotto che va, sul galleggiare piacevolmente sulla nostalgia del condiviso, essere perennemente accattivanti e la mancanza del coraggio necessario a percorrere strade nuove,  magari  sgradevoli, è rimasta nel ricordo una saggia denuncia. Mi sarebbe piaciuto che con i suoi bianchi denti avesse azzannato anche ieri sera il suo sogno in letteratura e  avesse tentato di dispiacerci con la sua voce di narratrice. 
La serata, insomma, mi è sembrata un bel servizio speciale in onda in un qualche canale televisivo e ho sentito la mancanza del solito bicchiere di vino che accompagna le mie serate casalinghe.
Come dire? lo spazio dell'evento, comunque e come sempre, non ha deluso.
(gogo2013)



02072013 gogo




lunedì 1 luglio 2013

SPACE METROPOLIZ

 Ho visto da lontano una torre d'avvistamento azzurra ai fianchi e con un cannocchiale in cima puntato verso la luna.
 Ho visto anche una nuova bandiera lassù che sventolava soddisfatta.
 Ho visto una terrazza con un lettone pieno di stracci colorati e due piscinette di plastica azzurra da cui dominare tutta Roma stando ammollo.
 Ho visto una spianata di terra con  tombe arcaiche e resti di mura di un'antica villa.
 Ho visto spazi sconosciuti dove si aggiravano ladri di immagini e famiglie curiose, tra graffiti colorati e sculture dell'abbandono.
 Ho visto sorrisi dolci di donne dai lineamenti esotici dietro cuccume e couscoussiere. Ho visto, desiderato e mangiato dolci che sapevano di cocco.
 Ho visto gente del luogo orgogliosa di tutti noi turisti culturali.
 Ho visto artisti bricoleur, operai scultori, architetti teorici, tecnici astronauti, maestre e saltimbanchi, maestri e curatori d'anime, illusi e determinati, ladri e disegnatori, digital-virtuali e artigiani, barricaderi e poeti.
 Ho visto la luna e il razzo lì pronto per andarci. Ho visto e ascoltato la storia della sua costruzione.
 Ho capito che la luna non è di nessuno e nessuno la può comperare.

(Lo diceva -mi ricordo- anche  il mio amico Pietro a proposito di un bosco di castagne da cui fummo cacciati e poi costretti, sotto la minaccia di una rustica roncola assassina, a restituire il raccolto.
 " Il bosco non è di nessuno!" diceva Pietro all'incredulo proprietario. E lo diceva, in qualche altra occasione,  anche a proposito di un cane "Lui è suo, non è di nessuno", ma non ricordo se il cane ci guardò perplesso.)

(gogo2013)

 SPACE METROPOLIS è un film-documentario