L'ULTIMO RACCONTO
Nessun suono di presenze, di qualcuno a cui poter chiedere aiuto. L’appartamento del mezzanino, quello più vicino al posto dove mi trovavo, era sicuramente vuoto. Le due ragazze che ora l’avevano preso in affitto, sostituendo Sasà e i suoi amici, erano già partite da qualche settimana per tornarsene a casa per le vacanze estive. Fino a settembre nessuno le avrebbe riviste. L’unico rumore, forse, era quello di qualche autobus in lontananza e di un gocciolio leggero da qualche parte della cantina. Dovevo almeno muovermi, far qualcosa.
Decisi allora di
raggiungere il nostro vano cantina, il nostro loculo ingombro dove cercare la
famosa borsa, un sacco fatto di stoffe diverse e ricamato, che qualcuno mi
aveva riportato da un viaggio a Istanbul e che dopo tanto tempo manteneva un
profumo di patchouli che mi ricordava i vent’anni. Passai dalla zona caldaia,
quell’enorme locale, cuore un tempo pulsante della cantina, dove ancora c’era,
ormai arrugginita, la caldaia del
vecchio impianto di riscaldamento, che al ricordo dopo anni si sarebbe
trasformata nella mia memoria in rossa e fumigante fucina, dall’odore acre di gas e contenitrice
di misteri. Molto più prosaicamente c’era un accumulo di metallo in un angolo,
qualche tubo con fasce o guarnizioni in gomma nera, e un perenne rigagnolo
d’acqua marrone sul pavimento di terra. La superai per raggiungere, aldilà di
un breve corridoio di cui ignoravo la fine, il nostro spazio. Armeggiai un po’
per aprire, ma qualcuno doveva aver spento la luce o era scaduto il tempo
programmato. La luce a tempo si spengeva,
come al solito nel momento di maggior bisogno. Con la torcia illuminai quell’ interno impraticabile per la
tanta roba accatastata disordinatamente. Quasi un tuffo dentro l’albero cavo
all’ inseguimento di Messer Bianconiglio. Anni di vita, viaggi, scatoloni di appunti, vestitini
di bimbi appena nati, un ridicolo mappamondo da illuminare, giocattoli,
quaderni e disegni, calosce di gomma e costumi di carnevale. La borsa era lì
dove l’avevo poggiata l’estate prima, ancora riconoscibile per il suo profumo
esotico che leggermente richiamò la mia attenzione. Non mi sarebbe servita a
nulla, visto che la festa alla quale sarei voluta andare per me non ci sarebbe
stata.
Qualche gocciolio mi avvertì che stavo
ritornando nella sala della vecchia caldaia e fu allora che cominciarono a
suonare le campane. Un buon segno. Era l’ora della funzione, l’inizio ufficiale
della festa del Santo. Quest’anno avevano detto che ci sarebbe stata anche la
famosa cantante sul palco costruito al centro dei giardini nella piazza. Felici
i vecchi e i pensionati, felici gli stranieri di passaggio e quelli stanziali.
Ormai saranno le otto. Sicuramente qualcuno si chiederà come mai non sono
ancora salita. Antonio, no. Se anche ha provato a chiamare, immaginerà che non
sono a casa e che il mio cell stia disperatamente squillando al chiuso di una
borsa, sotto la felpa arrotolata lì dentro, lo sciarpino che in caso di umidità
può proteggermi la gola, i quadernetti per gli appunti- eterni compagni di ogni
uscita, le chiavi , il pacchetto di fazzoletti di carta, gli occhiali da vista
e magari un libro. Perché non si sa mai, me ne porto sempre dietro uno, magari
piccolo.
Forse fu quel
suono che mi distrasse, quella tangibile prova dell’esistenza del mondo fuori
di lì, forse quel fondo disuguale in terra battuta, forse quel paio di
incongrui zoccoli che avevo ai piedi, il fatto è che mi ritrovai improvvisamente
giù, accartocciata con tutto il peso del corpo su una caviglia dolorante,
incapace di alzarmi e senza più la torcia in mano. Non sarebbe durata a lungo, comunque.
Già allora, che ancora funzionava, cominciava e
essere fioca e offriva una luce irreale lì da terra dove era rotolata. Lontano
dalla mia portata, dalla lunghezza del mio braccio. Muovermi sembra ormai
impossibile. Mi accorsi che avevo il cuore in subbuglio. Mentre torcevo il naso
per l’odore di muffa, tentai di trascinarmi verso la luce a terra o verso
l’uscita, ma la caviglia doleva e in quella penombra mi sembrava di oscillare
tra il sogno e la certezza di esser sveglia. Mi muovevo faticosamente a tentoni,
rabbrividendo quando entravo in contatto con qualche superficie sconosciuta. In
quel ventre oscuro sembrava alla mia fantasia eccitata che di tanto in tanto si
rincorressero grida soffocate, squittii, brontolii, gocciolii, rumori bassi e
misteriosi tra esalazioni gassose, forse immaginate. Dietro le superfici
corrose delle pareti un tempo bianche, si avvertivano forse presenze del
passato. Dovevo rimanere sveglia e dimenticare quel senso di oppressione,
quella tetra calma di morte, simile all’insopportabile tristezza di un cielo
basso di nuvole. Il cono di luce a terra si affievoliva sempre più.
(isabnic2013)
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