sì, lo so. Avrei dovuto finire il post sul poeta operaio e le varie recensioni di libri letti ultimamente.
Stasera preferisco pubblicare l'incipit dell'Ultimo Racconto. Ve lo affido. Chissà se riuscirò a continuare e a concludere.
L'ULTIMO RACCONTO
L’atmosfera
opprimente e l’umidità appiccicosa di quello spazio quasi senza luce parevano
incollarsi addosso come un sudario. Ormai era andata.
‘ Cazz.. ma come è possibile? Tutta colpa di
quella borsa del cazzo. Ma chi se l’aspettava? Faccio tutto pensando ad altro.
Magari tra un po’ si chiederanno che fine ho fatto. Quando salirà? Come mai è
in ritardo? … Non ho mai fatto tante cazzate tutte insieme. Ecco, chiusa
dentro. Io qui dentro e la chiave rimasta fuori.’
La tiritera di auto-recriminazioni seguiva il
ritmo delle mie pulsazioni che acceleravano sempre più, ma non c’era altro da
fare che aspettare.
Una yale, la chiave. - Mi raccomando, una
volta entrata toglila subito dalla toppa che, se rimane lì e chiudi, non puoi
far altro che telefonare perché qualcuno scenda ad aprire. E rimanere chiusi
dentro non è piacevole, aveva aggiunto mio marito quasi con cattiveria e
presagendo la possibilità che avrei lasciato che la cosa accadesse.
Chissà quante volte me lo aveva detto.
Beh, l’avevo fatto, cioè mi era successo e
naturalmente il cellulare era rimasto in ricarica sul tavolinetto all’ingresso,
quello instabile che avremmo dovuto riparare da tempo, quello con le foto
sopra. Poi, comunque, chi avrei potuto contattare? Antonio se ne era andato per
qualche giorno; voleva riflettere- aveva
detto. Una figlia era in vacanza in un’oasi
naturalistica e dunque con telefono irraggiungibile, fuori campo; l’altra,
quella più grande, si trovava in Giappone, dove sarebbe rimasta almeno fino alla fine di Settembre, e la possibilità di parlarci, o scriverle, prima
di lunedì, ovvero due giorni dopo, era nulla. E inoltre, avercelo lì il pc! sia
pure senza connessione, per scribacchiare durante l’attesa magari qualche riga e
avere davanti quello schermo confortante, piccolo è vero, ma luminoso. Almeno
finché fosse durata la batteria. Sette ore, avevo sentito dire, ma io non l’avevo
mai fatta scaricare fino in fondo. D’altra parte ero quasi sempre a casa quando
scrivevo. Altrimenti, qualche volta mi
capitava di scrivere in treno
quando andavo a trovare mia madre. Il viaggio durava più o meno un’ora e mezzo,
giusto il tempo per controllare la posta e rispondere -se era il caso, ma il
più delle volte a me piaceva guardarmi intorno, osservare i miei vicini di
viaggio, guardare fuori dal finestrino, anche se quel paesaggio in fuga lo sapevo
quasi a memoria. Lavoro di scrittura: niente.
Era agosto quando rimasi bloccata giù in
cantina e mi venne subito da pensare che in quel periodo, lungo il percorso
verso il paese dove viveva mia madre, il verde era sicuramente tutto bruciato;
in quella torrida estate anche i campi di girasoli, che fiancheggiavano la
ferrovia per kilometri e kilometri, dovevano essere diventati tutti marroni e le
colline completamente ingiallite, tranne qualche misero ciuffetto d’erba privo
di speranza. Dicevano in quei giorni che le temperature non avevano alcuna
voglia di diminuire, eppure – mi venne in mente- in quel periodo dell’anno,
quando ero ragazza, era stato solitamente il momento dei grandi temporali,
nubifragi e allagamenti. Mi ritrovai anche a pensare poi, mentre ero lì chiusa
in quella grande cantina, in quell’apparente silenzio affollato di pensieri,
che se in quello stesso momento il mondo stesse andando a rotoli, lì non
sarebbe arrivata nessuna notizia, niente pc niente telefono. Che tempo avrebbe
fatto l’indomani? Quale il tasso di
umidità all’esterno? Cosa avevano detto a
proposito dell’anticiclone? e l’afa? Pensai alle mie piante in balcone che avrebbero sofferto.
Qualcuna si sarebbe seccata. In fondo, però, la sera prima le avevo innaffiate
abbondantemente, ma loro, conoscendole, sicuramente si sarebbero aspettate
altra acqua decalcificata con un goccio d’aceto anche quelle sera. - Troppo
buona tu. Le vizi, vizi tutti. Troppo buona, poi quando un giorno non ti va e
non fai quello che si aspettano, tutti rimangono male. Ti preoccupi troppo
degli altri. Devi pensare più a te stessa. Devi coccolarti. – mi sembrò di
sentire la voce di mia madre che me lo ripeteva spesso, o quella di qualche
amica quando mi vedeva che ero un po’
giù e poco felice.
Intanto lì al
chiuso mi sentivo stringere la gola da quell’umidità bianca e polverosa. La cantina, a cui si accedeva dal sottoscala,
era molto grande e spaziava per tutta l’ampiezza del palazzo, suddivisa in
stanzette collegate da corridoi stretti e contorti che partivano quasi a
raggiera da un enorme spazio centrale occupato in un angolo dalla caldaia di un
vecchio impianto gocciolante di riscaldamento, non più in funzione. Le poche lampadine
erano fioche per la patina grassa di sporco accumulato intorno a loro, le pareti un tempo bianche erano ingrigite e il pavimento in terra battuta portava i segni di
molti passi.
Era una cantina malata con i muri magicamente coperti da un
velo fungoso che se toccavi era polvere leggera biancastra e dall’odore
pungente. Sui lunghi corridoi poco illuminati si affacciavano delle porte
protette da enormi lucchetti e catene con i quali i condomini chiudevano le
stanze usate come ripostigli. Tra le
grate metalliche che ferivano la parte superiore delle porte si intravedevano ombre
scure di armadi e ripiani stracolmi di roba dimenticata, ricordi, forse, o cose
che in casa non servivano più o che non si riuscivano a buttare, quelle inutili
o quelle che possono sempre servire.
Che potevo fare lì? Chi poteva accorgersi
della mia scomparsa? Accostai l’orecchio alla porta, inesorabilmente chiusa e
priva di maniglie, in cerca di qualche
rumore, qualche voce familiare, qualche segno di vita. Ma nulla.
Possibile che fossero già tutti saliti?
(isabnic2013)