venerdì 28 dicembre 2012

RASK (3) di Emilio Smunti


Le lenzuola le agognava da ore, eccole, accoglienti, la nausea a dissolversi nel sonno, il piacere finalmente, quello vero, il solo, la quiete. La mattina seguente aveva lezione, chimica organica, ore 10, ma rimase a dormire e si risvegliò a sera tarda.
“Hei Rask, vieni con me per una volta, dai!”. Eccola di nuovo..”Uhm, grazie, Linda, ci penso..” . Bene , bravo, vai così, fregala con la carta dell'esitante, ottima mossa. Ma poi tra sé, “Forse è la volta buona, potrei provare, magari..”. Nooo, Rask, dannazione no, quando imparerai? Messaggio inviato a Linda, vecchia amica d'infanzia: “Va bene per stasera, ci sto”. Fottuto.
Al manifestarsi dello squillo prestabilito -Linda era perciò sotto casa sua, ad attenderlo al volante- Rask dovette rinunciare al sogno cui stava prendendo parte; dovette rinunciare anche alla doccia: era piombato nel sonno a tradimento, sottolineando il libro di fisica sdraiato prono sul letto. I capelli sporchi e il quoziente intellettivo ampiamente fiaccato dal sopore, si sarebbe presentato in condizioni ancora inferiori alla media. “Dio mio..”. Iniziò a lavarsi alla bell'e meglio, con lo specchio bieco di fronte a restituirgli le occhiaie scolpite. Secondo squillo: doveva scendere, di corsa.
Unghie rosse lucenti sul volante e motore acceso, Linda lo salutò, sfolgorante della nuova capigliatura biondo oro. “Ma da quando..?”. “Da ieri, Rask, come stai? Ero stanca del solito arancio, ed ecco qua! Questa è Dalia..”. I capelli castani di Linda -i suoi capelli, quelli veri- Rask non li vedeva in giro da anni, da quando lei si era messa a frequentare quegli esoterici club underground. Anche Dalia, del resto -”Ciao, sono Rask”, “Eh??”, “Rask, sì”: intervento premuroso di Linda- poteva vantare un caschetto nero corvino che pareva realizzato in ossidiana. Acciambellato sui sedili posteriori -doveva resistere al sonno, era un ordine, doveva..- Rask si trovò a carpire stralci istruttivi di scambio dialogico da gineceo: “Davvero un bel biondo, sai, un giorno magari mi decido anche io..è proprio il biondo di Vilma Von Pulp, io la amo quella pin-up, ma che stile..Quanto hai sborsato dal parrucchiere? Hai anche tagliato? La frangia è perfetta..”. “Ritocco alla frangetta e colore: 110 tutto, ma son bravi. Dici che è come la Von Pulp? Ma tu stai bene mora!”. La cifra articolata non poteva essere reale. Ma dove trovavano tutti quei soldi da macerare, Dio mio? Un insulto al mondo. Non avrebbe mai potuto essere una donna, questo è certo. Per buona sorte..
“Annoiamo Rask, così! Dai, pensiamo a bere qualcosa prima di arrivare!”. Perciò eccoli a sorbire alcool, irrilevante in che forma, da bicchierini irrisori in offerta. Naturalmente Dalia era una dj, campava di elettronica e apparizioni scenografiche, con tanto di immagini video psichedeliche alle spalle, da poco promossa dal lunedi al giovedì sera. “Dovete assolutamente venire, il mio progetto propone anche videoarte, sperimentazione..dovete venire. Ogni giovedì. Ché poi c'è aperitivo compreso..”. Aperitivi? Rask ne aveva abbastanza. Ma poi...”videoarte”? Improbabile. “Progetto”? Far muovere culi, nulla più. Quanta pienezza di sé, quanto gonfiore. Articolò perciò: “Uh interessante, che bello. Un giovedì, magari..”. Secondo giro di bicchierini, l'addome si gonfia, dilata sinapsi, deforma i “progetti” a gonfiori incombenti. “..perciò sono riuscita a contattare dj Maram, incredibile, e se mi dice bene lo faccio suonare con me, dovete venire”. Eccola, la formula sacra cristallizzata del venditore d'eventi odierni; da ripetere tra labbra silenti sfiorando sferette di rosario legnoso. Sopraggiunto un quarto partecipante -un tizio con baffi e pantaloni singolarmente aderenti, bassista di un gruppo folk ..”il gruppo migliore della città”, aveva recitato Linda- si era iniziato a parlare di musica; non in senso tecnico, intendiamoci, qui si trattava di discutere di locali, date disponibili, nomi di organizzatori, nomi di gruppi, nomi di agenti, nomi di “progetti” imperdibili davvero. Tutta onomastica sconosciuta per il Rask. Si sentì rimpicciolire, perdere di massa e di peso ad un tempo, poi fondersi liscio da metallo in fucina, sentendosi cullare da quei nomi a cantilena. Si stava assopendo, le palpebre che fondono..”E tu invece?”. D'un tratto ritornò in sé. Fusione interrotta. Ma Dio mio, mossa inattesa: l'avevano interpellato. “Tu invece che fai?”. I due baffi lo fissavano con aria interrogativa, perciò minacciosa. “Io..io..” -lo sforzo disumano di riacquistare massa e gravità connessa, il tormento pietoso di aprire la palpebra e renderla viva- “sarei un chimico..sai, nulla di che..studio, io, sto indietro con gli esami”. Era indietro di un esame, per la verità; uno solo, che bisogno c'era di puntualizzarlo? E poi, perché mai quel condizionale? Lui era un chimico, a tutti gli effetti; probabilmente lo era sempre stato. Lui conosceva la struttura cristallina dei minerali, sapeva riconoscere i composti chimici elencati nelle etichette INCI dei prodotti di consumo, era in grado -eccola- di manipolare gli elementi e farli ubbidire alle sue direttive. “Chimica?!? See? Ci avevo 2, al liceo. Ma ti dicevo di quel batterista, Linda..”. Da sprofondare nel nulla. Da lasciarsi andare docili, di nuovo, alla fusione.
Ma socchiuse le palpebre, ecco il fiotto di disgusto. La nausea forte, la pelle forse verde, l'ininterrotto sfondo di nomi a cantilena. “Giuliano Bromidi, ce l'hai presente? Suonava con Beatrice Gelido, quella alta, che poi l'ha fregati e si è messa coi Degender ...il gruppo di Milo De Gerbida, bassista Dario Gelibili...ché poi s'è messo con Giulia Midoro, no? Assurdo, alla serata di Romina Giullambo, pare. Marino Bollugi Dorina Magelle Germano Bramidagi Gemma De Barmegiani Giada Mebogini Degia Lobragiudo Dogi Brigiodali Giolido Bargimiduo Mediligio Bromuro di...”. Bromuro? La testa vorticante, le tempie, il pentimento. In parte resposabili il terzo e quarto giro.
Quinto giro di bicchierini, poi si andò: era la prassi. Ad accoglierli all'ingresso del locale, l'elenco biblico dei nomi consacrati: Linda aveva chiesto esplicitamente di introdurre anche Rask, “un mio amico”, ma il suo nome non figurava nella “lista” -quello il tecnicismo- e furono costretti a steccarsi un ingresso. Benché la vista gli si fosse appannata da tempo e il sopore lo schiacciasse, vincente, da ore, Rask si rese conto di essere attorniato, e si sentì meglio. Corpi ovunque, in movimento, stipati saltellanti entro lo spazio stretto. Una calca diversa da quella cui aveva avuto modo di abituarsi: niente masse ossessive ondeggianti di ritmo a martello, niente sguardi agonizzanti da emme di che fluttua in corpo, niente sguaiato bivacco su fanga, con rantolo annesso di cane di rito. Lì tutto era predisposto con cura: le sedie, i divani, i tavolini e i cocktail a colori; l'area fumatori e i quadrati regolari delle camicie a quadretti, ubique. Le donne con i tacchi, il trucco approfondito. La stessa Linda, a esaminarla attentamente, non era che giustapposizione di particolari impeccabili: il rossetto rosso e la linea nera, dritta, sulla palpebra, la collana e gli orecchini in armonia con la stoffa della gonna a vita alta, le calze di pizzo strappate ad arte, la borsetta di cuoio a richiamare le scarpe. Per non parlare di Dalia, e del musicista folk. Gli uomini non erano infatti da meno, a partire dai due dj in consolle, dai quali Linda, secondo norma, fece partire il suo giro rituale di saluti: taglio anni Sessanta e fazzoletto retro, Rask sentì l'impulso di strapparsi di dosso il felpone. Complice il caldo, la ressa, il sudore, ma avvampò di vergogna per la maglietta nera, tinta unita. Perlomeno la magrezza pareva essere di moda: si lasciò andare alla musica -eh, non male- senza far più caso ai suoi arti sottili. Linda proseguiva imperterrita tra saluti reiterati e rapidi abbracci a mezz'aria;  lui seguiva silente -il folk non aveva più osato rivolgergli la parola- solo e tuttavia abbandonato dolcemente a quel rock, a tratti post-punk, a tratti brit-pop. L'hard-core era un'altra storia, ma si percepì piacevolmente cullato. Le ragazze erano belle, sfolgoranti quasi tutte -bionde, rosse- più magre che mai e ondeggianti di alcool in circolo; provò ad avvicinarsi a un paio che gli ballavano accanto, e fu allontanato. Ma bevve ancora -maledisse i prezzi ufficiali da bancone- e fu quasi – uh, impossibile!- sereno.
(Emilio Smunti,2011)
-CONTINUA-

POESIA di Lorenzo Mullon


Ci siamo incontrati prima degli occhi




Ci siamo incontrati prima degli occhi
quando eravamo impregnati di luce
quando le nuvole si creavano
in fondo al nostro respiro
e ogni sguardo era rivolto
all'interno
quando il cielo si chiudeva ad anello
e abitavamo
dentro una sfera di mondo
dalle pareti
a specchio

Lorenzo Mullon, 2012      su www.larecherche.it 

lunedì 24 dicembre 2012

FIRMATE LA PETIZIONE!!!!!


Piena applicazione della Legge Mancino contro ogni discriminazione razziale




Le notizie di questi giorni che riportano la nascita della sezione italiana di “Alba Dorata”, il movimento apertamente neonazista greco, e la sua volontà di presentarsi con una lista alle prossime elezioni politiche italiane, destano indignazione e preoccupazione. In Grecia la sua breve vita è già costellata di episodi inaccettabili di violenza, razzismo, linguaggio e simbologie neonaziste. Questo movimento, analogamente ad altri episodi legati ai movimenti di Forza Nuova e Casa Pound, entrambe intenzionate a concorrere con proprie liste alle consultazioni nazionali e amministrative, viola già con le affermazioni presenti sul proprio sito e con le proprie dichiarazioni una specifica legge dello Stato, la legge “Mancino” che dà forza al principio costituzionale che impedisce la ricostituzione di movimenti fascisti
Sig.ra Ministro dell'Interno facciamo appello a Lei e alla Magistratura, perché questa legge venga rigorosamente applicata, vietando la presentazione di liste delle forze sopracitate e agendo sulla stessa possibilità di una loro presenza organizzata.
Noi chiediamo che le Istituzioni repubblicane non restino indifferenti al riproporsi, sempre più aggressivo e tracotante, di movimenti neofascisti, neonazisti e razzisti nel nostro paese: essi sono un’offesa alla nostra comunità nazionale e alla nostra Costituzione, nata dalla Resistenza e un pericolo reale per la convivenza libera e civile. Riteniamo che ogni sottovalutazione di questi fenomeni sia grave e colpevole.
Forti della nostra memoria, dei nostri valori e della nostra Costituzione, noi non rimarremo mai in silenzio di fronte al ripresentarsi del fascismo nella vita istituzionale di questo paese.

lunedì 17 dicembre 2012

UNA PETIZIONE PRO SILA

Bastano per il momento 100 firme. Cambiamo le cose insieme, NO centrale biomassa in Sila!!



http://www.avaaz.org/it/petition/no_centrale_biomassa_in_Sila/?tIbePbb

Firmate perché vengano revocate le autorizzazioni per la costruzione delle centrali a biomassa, ma anche per fermare tutte le altre ipotesi di centrali con caratteristiche analoghe.

FIRMATE!!
Per preservare un habitat di straordinario valore ambientale,paesaggistico , agricolo di eccellenza,e delle risorse idriche presenti.Per la tutela della salute della popolazione dai rischi dell'inquinamento da polveri sottili, nanoparticelle e altri inquinanti.Per affermare il diritto delle comunità locali a decidere il proprio destino e quello de loro territorio.
http://www.avaaz.org/it/petition/no_centrale_biomassa_in_Sila/?tIbePbb

JUAN GELMAN, poeta dell'esilio e del dolore


Medellin (Colombia), 20…

“ … un grande applauso accoglie l’arrivo del grande vecchio della Poesia Latino-Americana:  Juan Gelman[1]. Lui, l’amato poeta argentino, l’ex-militante della sinistra peronista in esilio dal 1975[2], che ha sempre dichiarato che “ Scrivere poesia è interrogarsi sulla realtà … senza timori ”  e creduto nella poesia come memoria, come vittoria sull’orrore del dimenticare, come modo di riempire il vuoto creato dalla violenza.
              Con la sua voce calda, comincia a leggere i suoi versi e tutti lo ascoltano commossi:
Poesia [3]
Giovedì trascorso nell’atmosfera amica
della tua conversazione. Sulla tovaglia,
i dolci piatti, il coltello all’erta,
la voglia di mangiare.

La voglia pure di chiacchierare un po’,
di tutto, di ogni cosa, di niente.
Di piangere per via della cipolla
e di ridere giusto sul cucchiaio.

Le tue mani abili, tiepide di ortaggi,
ed il grembiule che si rovina sempre
in quel punto, che rabbia!
Il pane è aumentato ancora, eh? Come faremo!

Come faremo, mia sposa, come faremo a
toccare l’aria di questo semplice giovedì!
Guardarci il petto, scandalo della vita!
Udire nel tuo ventre come cresce nostro figlio!

E tutto il resto, lo sistemeremo.

            Tutto è affettuoso e bello in questo semplice giovedì, in cui tra odori di cucina, lessico familiare, preoccupazioni e speranze, tutto sembra normale. La vita prepotentemente batte sotto il petto e si moltiplica nel ventre della sposa. Ma qualcosa non torna: “il coltello all’erta” sulla tovaglia, il  “ridere giusto sul cucchiaio”, “il grembiule che si rovina sempre” e il prezzo del pane che aumenta. Forse con un po’ di pazienza … ma non si può cancellare il resto! Ci sono parole e silenzi, e in quei silenzi il non detto riaffiora, sguscia tra le parole, apparentemente allegre e leggere. La rabbia è solo un ritornello inutile e senza forza, e la pazienza invocata solo un tentativo di oblio.
           Un giovedì - e tutto il pubblico che sta ascoltando il poeta pensa ad altri terribili giovedì, quelli  in cui a Buenos Aires le Madri de la Plaza de Mayo, con i loro fazzoletti bianchi, marciavano intorno al palazzo del governo per chiedere il ritorno dei desaparecidos; tutti pensano anche alla tragica storia personale di Juan Gelman, anche lui vittima della dittatura, anche lui infaticabile nella ricerca della verità. Tutti ricordano la scomparsa  del suo giovane figlio e della nuora incinta, rapiti e assassinati per colpire il poeta che, accusato di attività antigovernative, si era rifugiato in Italia per sfuggire alla polizia argentina.[4]
           Malgrado la vita segnata dalla sofferenza e dai  lutti, però, quella di Gelman  non è mai una poesia appesantita dall’ ideologia; è, al contrario, […], una poesia che  procede ritmata, con versi spezzati dalle cesure, ripetizioni di parole, quasi che il poeta voglia fissare i ricordi, come per non dimenticare. Lo stesso ritmo spezzato […] di altri suoi componimenti. Anche quando parla d’amore, o […] della donna-mille- donne di questi  versi:
donne[5]
dire che quella donna era due donne è dire pochino
doveva averne 12 397 di donne nella sua donna/
era difficile sapere con chi si trattava
in quel popolo di donne/ esempio:
giacevamo in un letto d’amore/
lei era un’alba di alghe fosforescenti/
quando feci per abbracciarla
si trasformò in singapore piena di cani che urlavano/ ricordo
quando apparve avvolta di rose di aghadir/
pareva una costellazione in terra/
pareva che la croce del sud fosse discesa a terra /
quella donna brillava come la luna della sua voce destra/

come il sole che tramontava nella sua voce/
sulle rose c’erano scritti tutti i nomi di quella donna meno uno/
e quando si voltò,/ la sua nuca era il piano economico/
aveva migliaia di cifre e il bilancio delle morti favorevole alla dittatura militare/
non si sapeva mai dove andava a parare quella donna/
io ero leggermente sconcertato / una notte
le picchiai sulla spalla per vedere con chi mi trovavo
e vidi nei suoi occhi deserti un cammello / a volte
quella donna era la banda municipale del mio paese /
suonava dolci Walzer finché il trombone incominciava a stonare /
e tutti stonavano con lui /
quella donna aveva la memoria stonata/
tu potevi amarla fino al delirio /
farle crescere giorni dal sesso tremante/
farla volare come uccellino di lenzuola /
il giorno dopo si svegliava parlando di malevic /
la memoria le andava come un orologio rabbioso /
alle tre del pomeriggio si ricordava del mulo
che le aveva preso a calci l’infanzia in una notte dell’essere /
donava molto quella donna ed era una banda municipale
la divoravano tutti i fantasmi che poté
alimentare con le sue mille donne /
ed era una banda municipale stonata
allontanandosi fra le ombre della piazzetta del mio paese /
io / compagni / una notte come questa che
ci impregnano i volti che forse moriamo /
montai sul piccolo cammello che nei suoi occhi aspettava
e me ne andai nelle tiepide sponde di quella donna /
zitto come un bambino sotto gli avvoltoi grassi
che mi mangiano tutto / meno il pensiero
di quando lei si riuniva come un ramo
di dolcezza e lo lanciava nella sera

            O quando l’amore […]diventa invocazione, desiderio urlato in solitudine:
Poesia Preghiera[6]
Abitami, penetra in me.
Che sia uno il tuo sangue col mio.
Entri la tua bocca nella mia.
Il tuo cuore ingrandisca il mio fino a scoppiare.
Straziami.
Cadi  intera nelle mie viscere.
Vadano le tue mani nelle mie mani.
Camminino i tuoi piedi nei miei piedi, i tuoi piedi.
Ardi in me, ardimi.
Colmami della tua dolcezza.
Che la tua saliva bagni il mio palato.
Sii  in me come è il legno nel ramoscello.
Che non resisto più così, con questa sete
che mi brucia.
Con questa sete che mi brucia.
La solitudine, i suoi corvi, i suoi cani, i suoi brandelli.

       O luce e calore a riscaldare i tempi bui prima de:
La Vittoria [7]
[….]

dopo aver amato
il tuo ventre illumina ancora l’oscurità
la stanchezza
la notte rifugiata nella stanza
il silenzio ha tremato per noi
come i piedi scalzi di quest’inverno di poveri
rimangono ancora tra le tue braccia
volti d’amore abbandonati
dopo aver amato
regrediamo al fuoco, alla furia
all’ingiustizia
nella città che geme come pazza
l’amore conta pian piano
gli uccelli morti contro il freddo
le carceri, i baci, la solitudine
i giorni che mancano
per la rivoluzione

..."

 (da 326 poesie dal mondo per una storia d'amore,  di M.G.Bruni e I.Nicchiarelli, www.onyxebook.com, 2015)

*** sulla tradizione e l'esilio per J. Gelman, poeta ebreo in lingua spagnola, con testi tradotti da Laura branchini, confronta:
 http://blog.edizionisur.it/09-03-2012/la-poesia-di-juan-gelman/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=la-poesia-di-juan-gelman

** sui nuovi premi e riconoscimenti attribuiti al poeta e un'intervista con Gelman di Marco Dotti sul Manifesto, confronta:
http://blog.edizionisur.it/08-10-2012/nella-poesia-di-juan-gelman-la-%E2%80%9Cchiara-oscurita%E2%80%9D-del-ricordo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=nella-poesia-di-juan-gelman-la-%25e2%2580%259cchiara-oscurita%25e2%2580%259d-del-ricordo

(gogo2013)




[1]  Juan Gelman nasce a Buenos Aires nel 1930; scrittore, poeta e giornalista argentino. Premio Cervantes 2007. Nel 1975 lascia l’Argentina, in esilio prima volontario poi forzato; ha vissuto a Roma, spostandosi poi in varie parti del mondo. Traduttore all’UNESCO.  E' morto in Messico, dove aveva fissato la sua residenza negli ultimi anni, il 14 gennaio 2014.
[2] Anno del colpo di stato del generale Videla
[3] Juan Gelman, “Poesia”, per gentile concessione della Redazione italiana di www.juangelman.net ;traduzione inedita di Laura Branchini.
[4] Nel gennaio del 1990 furono identificati i resti del figlio Marcelo, ucciso a venti anni con un colpo alla nuca. Anche la nuora, allora incinta, era scomparsa; fu fatta partorire e poi portata con la bambina in Uruguay. La bimba, Maria Macarena, fu  affidata ad una famiglia di Montevideo. J. Gelman non smise mai di cercare la nipotina. Dopo una ricerca durata 23 anni, fu infine da lui ritrovata nel 2000.
[5] Juan Gelman, “donne” in “Doveri dell’esilio”, interlinea edizioni, 2006; traduzioni di Laura Branchini.
[6]Juan Gelman, “Poesia-preghiera”, per gentile concessione della Redazione italiana di www.juangelman.net;traduzione inedita di Laura Branchini.
[7] Juan Gelman,”La Vittoria”, da Gotàn,Guanda, 1980 (fuori catalogo); traduzione di Antonella Fabriani.

venerdì 14 dicembre 2012

RASK (2) di Emilio Smunti

 Perciò aveva iniziato a dormire: tra una lezione e l'altra, mattina e pomeriggio, rientrava in casa per sottrarsi al mondo; un quarto d'ora, mezz'ora, un paio d'ore: “tutta colpa del lenzuolo, Dio mio”. I sensi di colpa direttamente proporzionali alle ore.
Anni prima si era anche iscritto in una palestra, sperando .-illuso- d'irrobustire il suo fisico timido, magari -ahah- di -glip- non inserirsi, questo giammai, ma di -illuso- scambiare uno straccio di lessemi quotidiani. I ricordi vividi di prese per i fondelli in sede palestra di scuola elementare avrebbero dovuto metterlo in guardia. Le figuracce striate porpora da battuta floscia e passaggio storto durante ore ginniche di più recente liceo avrebbero dovuto frenarlo dall'errore. Ma un lurido ottimismo recidivo alimentato dalla giovane età e l'esperienza fresca del basket allegro da cortile perdigiorno -lì sì, era sempre stato bravo- lo avevano incastrato senza pietà. Ed eccolo con il suo seguito di braccia sottili e spalle ricurve, complice l'altezza, attraversare a testa bassa la sala delle macchine. Leghe ferro-carbonio dappertutto: l'acciaio dei bilancieri, la ghisa gloriosa dei dischi ipnotici. Quei marchingegni lo colpivano esteticamente, ma non osava avvicinarsi: i muscolosi, e il sudore, e la musica, house o dance o commerciale,  fusi in altoforno nell'ambiente ristretto, lo mettevano a disagio, da testa in subbuglio. Così era rimasto troppo magro e ricurvo, nascondendosi tra le ultime file del pilates femminino, o azzardando una corsa su tapiroulant mattutino, a sala pesi deserta. Negli spogliatoi, doveva apparire un alieno: le mani lunghe e affusolate, l'altezza eccessiva ma camuffata da colonna vertebrale accartocciata ad arte, l'abbigliamento trasandato da scarpa da skate e felpone tossico cucitogli addosso dagli anni della scuola. Durante i corsi, poi, non riusciva a guardarsi allo specchio, a dispetto degli altri che fissavano la propria immagine con aria di sfida. Forse per questo non lo salutavano e non lo rendevano partecipe dei discorsi da doccia; del resto i primi giorni, quando qualche voce muscolosa aveva provato ad apostrofarlo, aveva replicato con un grugnito probabilmente poco intellegibile; anche per un muscoloso, sì. Discutevano di diete appropriate e di chili persi, di pillole prodigiose da inghiottire a mente vacua, di barrette energetiche da miracolo istantaneo. Lui ad infilarsi veloce il felpone, vergogna lisa del fisico ossuto, lo sguardo a terra a ritrovare scarpe sporche, l'uscita di scena biascicando non sentito: accennava tra i denti un saluto, giusto per non sembrare scortese o peggio ostile. Vi aveva rinunciato al quarto giorno.
“Ma vieni con noi, Rask!” [Il padre, appassionato di letteratura russa, aveva deciso, inefficace l'opposizione della madre, di assegnargli (ahimé, innocente creatura) il nome (non c'è da riderne) di Rask'olnikov; con conseguenti prese per il culo di rito, occhi strabuzzati allo stringersi la mano, equivoci tragicomici agli appelli d'esame]. Non l'aveva neppure letto “Delitto e castigo”, con gran delusione del padre, che aveva iniziato a proporglielo dai primi anni di adolescenza; con grandissima delusione del padre, Rask si era iscritto a chimica. Il bello lo carpiva negli oggetti metallici -i tubi dei centri sociali, i macchinari da palestra- non certo nei volumi dello scaffale paterno. “Lungi da me letteratura e simili” -smorfia contratta di padre e disappunto visibile di madre solidale- “roba da donnicciole, astrazione da perdenti”. Lui manipolava davvero la materia, non immaginava soltanto di farlo. Poteva far reagire il mondo a suo piacimento, piegarlo al volere della mano, sentirlo suo e di nessun'altro. Roba che uno scrittore s'illudeva solo di fare. “Ma poi comporre storielle è una grandiosa perdita di tempo”. Ulteriori smorfie del padre, sguardi severi della madre. Eppure il nome gli era rimasto.
Perciò: “Rask, vieni con noi, dai!”. Frase pericolosa, ipoteca di guai barra noia inaudita. Ma i soliti stralci di ottimismo da giovenco spingevano il più delle volte -errore!- a replicare: “Mmm, sì, d'accordo..perché no?”. (Noooo, errore! Allarme rosso, povero illuso!).
Ed eccolo, una manciata di ore dopo, a soffrire a singulti in ambiente maligno; a desiderare follemente il lenzuolo. Quell'Aldo suo conoscente l'aveva portato all'inaugurazione di una mostra di fotografia. “Buffet gratis, Rask! Ti divertirai!”. Sapeva come attirarlo. Non con la promessa di svago, chiaro, ma con la prospettiva stimolante di scrocco. Un tipo dinamico, Aldo, basso ma piacente, artista anche lui e impregnato di eventi e aperitivi fino all'osso. Si conoscevano solo perché abitavano nello stesso condominio, e l'approccio democraticamente positivo al mondo aveva portato il giovane artista ad avvicinarsi con curiosità, forse da baraccone, all'anomalo Rask.
Solito felpone liso indosso, il tragitto in compagnia di Aldo era stato piacevole; solita apertura democratica al mondo, Aldo aveva mostrato interesse per la tesi del potere estetico dei metalli espostagli da Rask. I due avevano riso, prospettato con ironia impietosa l'evento cui andavano incontro, dipinto in anticipo ogni aspetto previsto, deridendolo, svuotandolo, annullandolo. Una volta alla galleria, però, il vincolo tra i due, forte vincolo strabiliante da tragitto d'attesa, si era dissolto d'un lampo. Benché Rask   fosse rimasto impalato alla spalla destra dell'amico, questi l'aveva abbandonato all'ingresso: tra i due il gioco era finito. Ora ognun per sé, alla guerra del talento, e il piccolo Aldo a sguazzare come nell'acqua del ventre materno. Con tutti scambiava saluti acquosi di liquido amniotico, distribuiva enunciati troppo brillanti per essere sobri. Rask al suo fianco, a guardarsi le scarpe. Un giovane dai capelli scuri -si occupava della gestione di un sito, roba d'arte, s'intende- l'aveva fermati chiedendo una foto. Doveva documentare l'evento, “poi metto tutto online, naturale”. Imbarazzato, anche Rask aveva sfoderato un sorriso torvo da fototessera, per poi assistere allo scambio di contatti, di rito. Il suo - “Anche tu sei un artista?” , “No, io, sono uno studente..”- non l'aveva voluto. Non sei un artista, non sei nessuno. La taglieranno la foto, sei un intruso. Mentre Aldo proseguiva con disinvoltura a illustrare le mostre cui aveva avuto modo di partecipare -“Ma davvero?!? Interessante!”- Rask si sentì scuoiato e un focolare di nausea gli si accese nel ventre. Anche lui si occupava di bellezza, lui, sì, sapeva modificare la materia, farla agire reagire e gridare, lui aveva da proporre i suoi metalli, e..la bellezza dei metalli, sin dai 12 anni lui avrebbe voluto...Si guardava intorno smarrito, le poche foto appese le conosceva a memoria e non facevano che acuirgli il malessere, fissava gli smalti curati e i foulard e le camicie e i tagli e i ciuffi e i cravattini a rombi, ma la voce d'acqua liscia di Aldo pareva l'unica emissione sonora, a felpargli le orecchie. Con disinvoltura articolava parole, scandiva, un sorso di prosecco, battuta, risata..Ecco, il prosecco: lui era lì per scrocco, era un parassita, uno studente, non un artista, doveva mangiare, bere gratis, era lì perché..
Ma di fronte al buffet si vergognò senza ragione, e l'unico drink glielo porse Aldo sorridendo.
“Bella serata, vero?! Buona notte, Rask, a presto”. Possibile non si fosse reso conto del malore marchiato a fuoco sul suo viso rappreso? Il solito approccio ottimistico al mondo rendeva Aldo agevolmente cieco.
(Emilio Smunti 2011)
-CONTINUA-

giovedì 13 dicembre 2012

AUGURI, JACK (HIRSCHMAN) !!



HAPPY BIRTHDAY, JACK!!


                13.

Noi non vivremo più di pietre.
Noi ci sporgeremo verso la luce e ci piegheremo con essa verso l'uscita.
Il nascondersi nella silenziosa miseria sarà cosa del passato.
Tutto questo disputare sulla vendita e sull'acquisto del cuore,
e la vendita e l' acquisto del cuore cesseranno.
Tu parlerai con me ed io con te.
Il modo in cui il mondo è fatto e dato sarà fresco e nuovo.
E nella stagione dell'apertura dei fiori
quando noi ci struggiamo per i fiori e giaciamo tra i fiori
noi piangeremo perché le divisioni del mondo sono una.

Jack Hirschman, L'Arcano Xibalba, a cura di Anna Lombardo, Multimedia Edizioni, 1996.

venerdì 7 dicembre 2012

RASK (1) di Emilio Smunti

"Rask",  il testo ancor più tristo di E.Smunti 2011
                                                                                                                                  Una vita a disposizione -di quelle stirate e pulite, non tirate a lucido, intendiamoci, ma neppure rattoppate e logore, ecco- una vita ordinaria a disposizione -normale q.b.- e nessuna capacità di prenderla in mano. L'unica: starsene sul letto con arti pesanti e cervello rappreso, chiudere gli occhi, assopirsi, cullarsi, riaprirli, ripiombare nel sonno. Il corpo di pietra invecchiato precoce, le occhiaie di viola a corrompere i bulbi.
Le rare escursioni nel mondo esterno si risolvevano puntualmente in fiotti violenti di nausea strisciante: da farsi verdi in viso e rigettare le interiora tutte. Sempre più rare, perciò; eccezionali.
Le ore di sonno di gran lunga superiori a quelle di veglia dal punto di vista qualitativo: perché discostarsene, allora? Era giunto a questa conclusione dopo anni -decenni: circa due- di tentativi dolorosi e regolarmente falliti. Aveva tentato, appunto, di far capolino nei contesti più disparati, di comparire in ambienti a elevata distanza strutturale, di materializzarsi in scenari sempre nuovi e ulteriori, ma ogni volta si era ritrovato schiacciato e mutilato, ridotto a creatura angolare, silente, ripiegato sullo stomaco bruciante. Nessun'ambiente era in grado di accoglierlo, non uno. Anzi, quello doveva essere il suo ambiente: mura domestiche e sopore dolce. Testa pesante e porosa, che sprofonda e tuttavia fluttua, pietra pomice di dormiveglia perpetuo.
Anni prima si era messo in testa di frequentare l'università, che idea. La testa bassa e gli occhi appannati, comprensibili nell'arco delle prime settimane, si erano poi imposti a norma perentoria, infine abitudine cullante. Gli altri lo evitavano con cura, complice forse il ridicolo abbigliamento rimastogli addosso dal fu liceo; lui sempre solo e gli altri sempre in gruppo: gli schieramenti fissati e semplici. Se arrivava in anticipo, temporeggiare soli accanto al gruppo vociante diveniva impresa da faccia contratta; arrivare tardi, poi, era anche peggio: penetrare in aula con passo incerto, la testa a terra e l'aspetto impietrito, articolare “è libero?” con faccia da cazzo; in perfetto orario, poi, non arrivava mai.
In occasione degli esami semestrali, serpeggiava solidarietà tangibile: di norma  percentuale irrisoria della vita emotiva studentesca, il sentimento in gioco schizzava d'un tratto da falde profonde, dilagava e impregnava le pareti. Allora si parlava da una panca d'attesa all'altra, si scambiavano appunti, s'augurava il vecchio “In bocca..”. Man mano che trascorrevano le ore il dialogo si discostava dai contenuti dell'esame: professori, corsi, alloggi, futuro, i soldi, il caldo, l'estate che incalza. Oppure il freddo, quanto manca alla laurea, l'università non funziona, l'erasmus lo farò. Ore d'attesa da avvizzire e morire, lui solo, sulla panca, con il cranio tra le mani. Benché ascoltasse a tratti con interesse i molli scambi conversazionali di quegli altri, intervenire o -see!- essere interpellato era del tutto escluso, non previsto, neppure alla lontana. Alla larga, quello è strano, ha il naso lungo, che s'impicchi. Un po' di nausea, ma in fondo ne godeva.
Anni prima  ancora si era messo a frequentare serate fosche da Babilonia urbana. La musica martellante da casse scure lo coinvolgeva senza ragione, i prezzi – cinque euro, a volte tre, “sottoscrizione, daje!” alcune sere- lo avevano pervaso d'un sentore illusorio di accoglienza democratica, l'abbigliamento da skater e cappuccio calato se l'era sentito naturalmente indosso: ed eccolo a varcare soglie di vecchie rimesse occupate, scuole cadenti ed ex-cinodromi nebbiosi. Gli ambienti cupi e ferrosi lo rassicuravano, i tubi metallici lo avvolgevano a nido e i capanni fangosi gli sapevano di gioco; la gente intorno, le trecce ovunque e i lobi sformati, le scarpe enormi e le spalle ricurve, la stessa gente agonizzante al mattino, gli parevano disposti a grande specchio riflettente. Ed eccolo gioire, ambire, imitare..
Ma quel fulgore da riconoscimento, da entusiasmo da inizi, di inizio serata, si era velocemente raggrinzito e sfilacciato dal di dentro. A pelle sopravviveva, appena arrivati in loco -il fango a terra, gli sguardi biechi- ma si esauriva allo scoccare dell'ora. Mezz'ora, poi. Si trattava, alla fin fine, di andare ad agitarsi tra gente sconosciuta, in sedi turpi e repellenti, tra bagni chimici di plastica blu e folla assordante di casse stordenti. “Emmee ddìì, 'nfetamineee”: mercati notturni di merci malate, che scavano e corrodono, plasmano e forgiano, e pungono a fondo. Non vedeva l'ora di fuggire, a quel punto: si sentiva un intruso -idiota- tra idioti integrati. E poi calca, sudore, spazio nullo. A quel punto, non si faceva altro che uscire a far festa senza averne voglia, e con gente dubbia, con cui il sorriso era sempre da forzare. Infine, alle solite: sagome stramazzate al suolo, all'alba, a mo' di creaturine rantolanti di penombra. Anche lui distrutto, ma troppo intruso per esserlo davvero.
La felpa identitaria e il sopracciglio destro inanellato persistevano eterni a carezzare un corpo ormai adulto; monito dal passato, d'accordo, ma soprattutto conservatorismo pigro. In ultima analisi, null'altro che travestimento odioso da tossicomane vecchia scuola: controproducente.
(Emilio Smunti, 2011)
-CONTINUA-

lunedì 3 dicembre 2012

Edizioni Ensemble alla Fiera del Libro di Roma

 In occasione della fiera del libro di Roma, il 9 dicembre, il poeta albanese Gezim Hajdari, curatore di Erranze, la nuova collana di scritture migranti della  Ensemble,  incontrerà  un altro poeta, Besnik Mustafaj, fondatore del partito democratico albanese.

Dal comunicato stampa:

“Leggenda della mia nascita” di Besnik Mustafaj
Dal 23 novembre in tutte le librerie

La poesia di Mustafaj nasce nelle Bjeshkët e Nëmuna (Montagne Maledette), nel nord dell’Albania, nel pieno inverno della dittatura comunista albanese.
Il verso di Mustafaj sembra pacato a una prima lettura, epico come nei racconti degli antichi, senza grida né enfasi. Ma è solo un inganno, perché rileggendo con l’attenzione dovuta si scopre che sotto l’essere del suo verbo abitano echi, suoni, ritmi interiori intensi, che penetrano nella memoria del lettore accorto, rimanendovi per sempre. È un verso vero e vissuto profondamente, carico di umanità e universalità. Mustafaj sa colloquiare con le cose, dando loro voce e volto, attraverso una prosa poetica che colpisce per la forza e per la bellezza antica e ancestrale. A volte tumultuosa e carica dell’inquietudine quotidiana, la sua poesia si fa carico del dolore e della sofferenza dell’uomo, in attesa di un raggio di luce durante le notti nere, che sembrano non avere mai fine: Non arriverà mai l’alba. Fare il poeta nel cuore della dittatura più feroce del vecchio continente, in cui s’intrecciavano i vivi con i morti, poteva essere una scelta fortunata per i poeti di corte, ma pericolosa per gli “eretici”. Attraverso metafore e simboli ambigui, i poeti tentavano di recuperare la libertà quotidiana perduta. Chi osava spingersi oltre il limite proibito, fissato dalla censura, pagava con la propria vita, “uccidendosi” con la propria poesia.
Il territorio poetico di Mustafaj è un territorio minacciato, abitato da streghe, notti nere, boschi oscuri, lupi mannari, sangue versato… Sono simboli negativi che, come presagi, preavvisano un lugubre destino per il poeta e per la poesia stessa. L’amore come anima del mondo; è la poesia stessa che sopravvive, sfidando qualsiasi oppressione e i recinti di filo spinato. Toccanti sono i versi dedicati alla propria donna e alla madre che, pur essendo assente, è sempre presente accanto al proprio figlio, pronta a proteggerlo, insegnandogli le leggi antiche degli avi malsor (montanari).
È questa la leggenda della nascita del poeta e della sua poesia imponente, dai toni epici ed elegiaci, che assomigliano a una leggenda vivente sorta nel gelido e lungo inverno della dittatura albanese.
[Dalla prefazione di Gëzim Hajdari]

Besnik Mustafaj è nato nel 1958 in Albania. Si è laureato in Lingua e Letteratura Francese all’Università di Tirana e ha lavorato come professore, traduttore e giornalista. È tra i fondatori del Partito Democratico d’Albania; con Azem Hajdari organizzò la prima manifestazione democratica contro il regime comunista di Enver Hoxha. Ambasciatore in Francia dal 1992 al 1997, è stato Ministro degli Esteri dal 2005 al 2007, per poi dimettersi causa dissenso con il premier Berisha e dedicarsi definitivamente alla scrittura.
Tra i più importanti scrittori contemporanei albanesi, Mustafaj è autore di numerosi romanzi, saggi, raccolte e traduzioni. Le sue opere sono state tradotte in molte lingue, ricevendo un largo consenso di critica. In Italia ha pubblicato Albania: tra crimini e miraggi (Garzanti, 1993). Nel 1997 ha vinto il premio “Méditerranée” per il romanzo Daullja prej letre (Tamburo di carta).

Autore: Besnik Mustafaj
Traduttore: Gëzim Hajdari
Titolo: Leggenda della mia nascita
Casa editrice: Edizioni Ensemble
Pagine: 120
Prezzo: 15 euro

Data uscita: 23 novembre

Per informazioni e copie saggio: stampa@edizioniensemble.com

                                                  Edizioni Ensemble 
                                                  Roma, Italia
                                                  Sede Legale:
                                                  Via Antonio Coppi, 4
                                                  00179 Roma
                                                  +39 393 17 13 162
                                                  info@edizioniensemble.com

sabato 1 dicembre 2012

SERVO DI SCENA al Teatro Argentina

Il testo di Ronald Harwood ( traduzione italiana a cura di Masolino D'Amico) è meraviglioso, rapido,  divertente e tristissimo insieme. Branciaroli si riconferma attore bravissimo e Tommaso Cardarelli (il servo di scena)-  che fa un po' il verso a Paolo Poli-è altrettanto bravo:  riesce a mantenere per tutta la durata dello spettacolo il ritmo veloce delle frasi.  Le sue parole sembrano accarezzare, proteggere, curare e circondare, simile a  una nuvola di affetto ironico, il vecchio attore istrione, sempre più consapevole dell' avvicinarsi della sua fine.  Regia e scenografia potevano osare di più e il confronto con il film di Yates (1983), interpretato grandiosamente da Albert Finney e Tom Courtenay, continua ad affacciarsi alla mente durante tutta la rappresentazione.
(gogo2012)