Anni prima si era anche iscritto in una palestra,
sperando .-illuso- d'irrobustire il suo fisico timido, magari -ahah- di -glip-
non inserirsi, questo giammai, ma di -illuso- scambiare uno straccio di lessemi
quotidiani. I ricordi vividi di prese per i fondelli in sede palestra di scuola
elementare avrebbero dovuto metterlo in guardia. Le figuracce striate porpora
da battuta floscia e passaggio storto durante ore ginniche di più recente liceo
avrebbero dovuto frenarlo dall'errore. Ma un lurido ottimismo recidivo
alimentato dalla giovane età e l'esperienza fresca del basket allegro da
cortile perdigiorno -lì sì, era sempre stato bravo- lo avevano incastrato senza
pietà. Ed eccolo con il suo seguito di braccia sottili e spalle ricurve,
complice l'altezza, attraversare a testa bassa la sala delle macchine. Leghe
ferro-carbonio dappertutto: l'acciaio dei bilancieri, la ghisa gloriosa dei
dischi ipnotici. Quei marchingegni lo colpivano esteticamente, ma non osava
avvicinarsi: i muscolosi, e il sudore, e la musica, house o dance o
commerciale, fusi in altoforno
nell'ambiente ristretto, lo mettevano a disagio, da testa in subbuglio. Così
era rimasto troppo magro e ricurvo, nascondendosi tra le ultime file del
pilates femminino, o azzardando una corsa su tapiroulant mattutino, a sala pesi
deserta. Negli spogliatoi, doveva apparire un alieno: le mani lunghe e
affusolate, l'altezza eccessiva ma camuffata da colonna vertebrale
accartocciata ad arte, l'abbigliamento trasandato da scarpa da skate e felpone
tossico cucitogli addosso dagli anni della scuola. Durante i corsi, poi, non riusciva
a guardarsi allo specchio, a dispetto degli altri che fissavano la propria
immagine con aria di sfida. Forse per questo non lo salutavano e non lo
rendevano partecipe dei discorsi da doccia; del resto i primi giorni, quando
qualche voce muscolosa aveva provato ad apostrofarlo, aveva replicato con un
grugnito probabilmente poco intellegibile; anche per un muscoloso, sì.
Discutevano di diete appropriate e di chili persi, di pillole prodigiose da
inghiottire a mente vacua, di barrette energetiche da miracolo istantaneo. Lui
ad infilarsi veloce il felpone, vergogna lisa del fisico ossuto, lo sguardo a
terra a ritrovare scarpe sporche, l'uscita di scena biascicando non sentito:
accennava tra i denti un saluto, giusto per non sembrare scortese o peggio ostile.
Vi aveva rinunciato al quarto giorno.
“Ma vieni con noi, Rask!” [Il padre, appassionato
di letteratura russa, aveva deciso, inefficace l'opposizione della madre, di
assegnargli (ahimé, innocente creatura) il nome (non c'è da riderne) di
Rask'olnikov; con conseguenti prese per il culo di rito, occhi strabuzzati allo
stringersi la mano, equivoci tragicomici agli appelli d'esame]. Non l'aveva
neppure letto “Delitto e castigo”, con gran delusione del padre, che aveva
iniziato a proporglielo dai primi anni di adolescenza; con grandissima
delusione del padre, Rask si era iscritto a chimica. Il bello lo carpiva negli
oggetti metallici -i tubi dei centri sociali, i macchinari da palestra- non
certo nei volumi dello scaffale paterno. “Lungi da me letteratura e simili”
-smorfia contratta di padre e disappunto visibile di madre solidale- “roba da
donnicciole, astrazione da perdenti”. Lui manipolava davvero la materia, non
immaginava soltanto di farlo. Poteva far reagire il mondo a suo piacimento,
piegarlo al volere della mano, sentirlo suo e di nessun'altro. Roba che uno
scrittore s'illudeva solo di fare. “Ma poi comporre storielle è una grandiosa
perdita di tempo”. Ulteriori smorfie del padre, sguardi severi della madre.
Eppure il nome gli era rimasto.
Perciò: “Rask, vieni con noi, dai!”. Frase
pericolosa, ipoteca di guai barra noia inaudita. Ma i soliti stralci di
ottimismo da giovenco spingevano il più delle volte -errore!- a replicare:
“Mmm, sì, d'accordo..perché no?”. (Noooo, errore! Allarme rosso, povero illuso!).
Ed eccolo, una manciata di ore dopo, a soffrire a
singulti in ambiente maligno; a desiderare follemente il lenzuolo. Quell'Aldo
suo conoscente l'aveva portato all'inaugurazione di una mostra di fotografia.
“Buffet gratis, Rask! Ti divertirai!”. Sapeva come attirarlo. Non con la
promessa di svago, chiaro, ma con la prospettiva stimolante di scrocco. Un tipo
dinamico, Aldo, basso ma piacente, artista anche lui e impregnato di eventi e
aperitivi fino all'osso. Si conoscevano solo perché abitavano nello stesso
condominio, e l'approccio democraticamente positivo al mondo aveva portato il
giovane artista ad avvicinarsi con curiosità, forse da baraccone, all'anomalo
Rask.
Solito felpone liso indosso, il tragitto in
compagnia di Aldo era stato piacevole; solita apertura democratica al mondo,
Aldo aveva mostrato interesse per la tesi del potere estetico dei metalli
espostagli da Rask. I due avevano riso, prospettato con ironia impietosa
l'evento cui andavano incontro, dipinto in anticipo ogni aspetto previsto, deridendolo,
svuotandolo, annullandolo. Una volta alla galleria, però, il vincolo tra i due,
forte vincolo strabiliante da tragitto d'attesa, si era dissolto d'un lampo.
Benché Rask fosse rimasto impalato alla
spalla destra dell'amico, questi l'aveva abbandonato all'ingresso: tra i due il
gioco era finito. Ora ognun per sé, alla guerra del talento, e il piccolo Aldo
a sguazzare come nell'acqua del ventre materno. Con tutti scambiava saluti
acquosi di liquido amniotico, distribuiva enunciati troppo brillanti per essere
sobri. Rask al suo fianco, a guardarsi le scarpe. Un giovane dai capelli scuri
-si occupava della gestione di un sito, roba d'arte, s'intende- l'aveva fermati
chiedendo una foto. Doveva documentare l'evento, “poi metto tutto online,
naturale”. Imbarazzato, anche Rask aveva sfoderato un sorriso torvo da
fototessera, per poi assistere allo scambio di contatti, di rito. Il suo -
“Anche tu sei un artista?” , “No, io, sono uno studente..”- non l'aveva voluto.
Non sei un artista, non sei nessuno. La taglieranno la foto, sei un intruso.
Mentre Aldo proseguiva con disinvoltura a illustrare le mostre cui aveva avuto
modo di partecipare -“Ma davvero?!? Interessante!”- Rask si sentì scuoiato e un
focolare di nausea gli si accese nel ventre. Anche lui si occupava di bellezza,
lui, sì, sapeva modificare la materia, farla agire reagire e gridare, lui aveva
da proporre i suoi metalli, e..la bellezza dei metalli, sin dai 12 anni lui
avrebbe voluto...Si guardava intorno smarrito, le poche foto appese le conosceva
a memoria e non facevano che acuirgli il malessere, fissava gli smalti curati e
i foulard e le camicie e i tagli e i ciuffi e i cravattini a rombi, ma la voce
d'acqua liscia di Aldo pareva l'unica emissione sonora, a felpargli le
orecchie. Con disinvoltura articolava parole, scandiva, un sorso di prosecco,
battuta, risata..Ecco, il prosecco: lui era lì per scrocco, era un parassita,
uno studente, non un artista, doveva mangiare, bere gratis, era lì perché..
Ma di fronte al buffet si vergognò senza ragione, e
l'unico drink glielo porse Aldo sorridendo.
“Bella serata, vero?! Buona notte, Rask, a
presto”. Possibile non si fosse reso conto del malore marchiato a fuoco sul suo
viso rappreso? Il solito approccio ottimistico al mondo rendeva Aldo
agevolmente cieco.
(Emilio Smunti 2011)
-CONTINUA-
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