venerdì 14 dicembre 2012

RASK (2) di Emilio Smunti

 Perciò aveva iniziato a dormire: tra una lezione e l'altra, mattina e pomeriggio, rientrava in casa per sottrarsi al mondo; un quarto d'ora, mezz'ora, un paio d'ore: “tutta colpa del lenzuolo, Dio mio”. I sensi di colpa direttamente proporzionali alle ore.
Anni prima si era anche iscritto in una palestra, sperando .-illuso- d'irrobustire il suo fisico timido, magari -ahah- di -glip- non inserirsi, questo giammai, ma di -illuso- scambiare uno straccio di lessemi quotidiani. I ricordi vividi di prese per i fondelli in sede palestra di scuola elementare avrebbero dovuto metterlo in guardia. Le figuracce striate porpora da battuta floscia e passaggio storto durante ore ginniche di più recente liceo avrebbero dovuto frenarlo dall'errore. Ma un lurido ottimismo recidivo alimentato dalla giovane età e l'esperienza fresca del basket allegro da cortile perdigiorno -lì sì, era sempre stato bravo- lo avevano incastrato senza pietà. Ed eccolo con il suo seguito di braccia sottili e spalle ricurve, complice l'altezza, attraversare a testa bassa la sala delle macchine. Leghe ferro-carbonio dappertutto: l'acciaio dei bilancieri, la ghisa gloriosa dei dischi ipnotici. Quei marchingegni lo colpivano esteticamente, ma non osava avvicinarsi: i muscolosi, e il sudore, e la musica, house o dance o commerciale,  fusi in altoforno nell'ambiente ristretto, lo mettevano a disagio, da testa in subbuglio. Così era rimasto troppo magro e ricurvo, nascondendosi tra le ultime file del pilates femminino, o azzardando una corsa su tapiroulant mattutino, a sala pesi deserta. Negli spogliatoi, doveva apparire un alieno: le mani lunghe e affusolate, l'altezza eccessiva ma camuffata da colonna vertebrale accartocciata ad arte, l'abbigliamento trasandato da scarpa da skate e felpone tossico cucitogli addosso dagli anni della scuola. Durante i corsi, poi, non riusciva a guardarsi allo specchio, a dispetto degli altri che fissavano la propria immagine con aria di sfida. Forse per questo non lo salutavano e non lo rendevano partecipe dei discorsi da doccia; del resto i primi giorni, quando qualche voce muscolosa aveva provato ad apostrofarlo, aveva replicato con un grugnito probabilmente poco intellegibile; anche per un muscoloso, sì. Discutevano di diete appropriate e di chili persi, di pillole prodigiose da inghiottire a mente vacua, di barrette energetiche da miracolo istantaneo. Lui ad infilarsi veloce il felpone, vergogna lisa del fisico ossuto, lo sguardo a terra a ritrovare scarpe sporche, l'uscita di scena biascicando non sentito: accennava tra i denti un saluto, giusto per non sembrare scortese o peggio ostile. Vi aveva rinunciato al quarto giorno.
“Ma vieni con noi, Rask!” [Il padre, appassionato di letteratura russa, aveva deciso, inefficace l'opposizione della madre, di assegnargli (ahimé, innocente creatura) il nome (non c'è da riderne) di Rask'olnikov; con conseguenti prese per il culo di rito, occhi strabuzzati allo stringersi la mano, equivoci tragicomici agli appelli d'esame]. Non l'aveva neppure letto “Delitto e castigo”, con gran delusione del padre, che aveva iniziato a proporglielo dai primi anni di adolescenza; con grandissima delusione del padre, Rask si era iscritto a chimica. Il bello lo carpiva negli oggetti metallici -i tubi dei centri sociali, i macchinari da palestra- non certo nei volumi dello scaffale paterno. “Lungi da me letteratura e simili” -smorfia contratta di padre e disappunto visibile di madre solidale- “roba da donnicciole, astrazione da perdenti”. Lui manipolava davvero la materia, non immaginava soltanto di farlo. Poteva far reagire il mondo a suo piacimento, piegarlo al volere della mano, sentirlo suo e di nessun'altro. Roba che uno scrittore s'illudeva solo di fare. “Ma poi comporre storielle è una grandiosa perdita di tempo”. Ulteriori smorfie del padre, sguardi severi della madre. Eppure il nome gli era rimasto.
Perciò: “Rask, vieni con noi, dai!”. Frase pericolosa, ipoteca di guai barra noia inaudita. Ma i soliti stralci di ottimismo da giovenco spingevano il più delle volte -errore!- a replicare: “Mmm, sì, d'accordo..perché no?”. (Noooo, errore! Allarme rosso, povero illuso!).
Ed eccolo, una manciata di ore dopo, a soffrire a singulti in ambiente maligno; a desiderare follemente il lenzuolo. Quell'Aldo suo conoscente l'aveva portato all'inaugurazione di una mostra di fotografia. “Buffet gratis, Rask! Ti divertirai!”. Sapeva come attirarlo. Non con la promessa di svago, chiaro, ma con la prospettiva stimolante di scrocco. Un tipo dinamico, Aldo, basso ma piacente, artista anche lui e impregnato di eventi e aperitivi fino all'osso. Si conoscevano solo perché abitavano nello stesso condominio, e l'approccio democraticamente positivo al mondo aveva portato il giovane artista ad avvicinarsi con curiosità, forse da baraccone, all'anomalo Rask.
Solito felpone liso indosso, il tragitto in compagnia di Aldo era stato piacevole; solita apertura democratica al mondo, Aldo aveva mostrato interesse per la tesi del potere estetico dei metalli espostagli da Rask. I due avevano riso, prospettato con ironia impietosa l'evento cui andavano incontro, dipinto in anticipo ogni aspetto previsto, deridendolo, svuotandolo, annullandolo. Una volta alla galleria, però, il vincolo tra i due, forte vincolo strabiliante da tragitto d'attesa, si era dissolto d'un lampo. Benché Rask   fosse rimasto impalato alla spalla destra dell'amico, questi l'aveva abbandonato all'ingresso: tra i due il gioco era finito. Ora ognun per sé, alla guerra del talento, e il piccolo Aldo a sguazzare come nell'acqua del ventre materno. Con tutti scambiava saluti acquosi di liquido amniotico, distribuiva enunciati troppo brillanti per essere sobri. Rask al suo fianco, a guardarsi le scarpe. Un giovane dai capelli scuri -si occupava della gestione di un sito, roba d'arte, s'intende- l'aveva fermati chiedendo una foto. Doveva documentare l'evento, “poi metto tutto online, naturale”. Imbarazzato, anche Rask aveva sfoderato un sorriso torvo da fototessera, per poi assistere allo scambio di contatti, di rito. Il suo - “Anche tu sei un artista?” , “No, io, sono uno studente..”- non l'aveva voluto. Non sei un artista, non sei nessuno. La taglieranno la foto, sei un intruso. Mentre Aldo proseguiva con disinvoltura a illustrare le mostre cui aveva avuto modo di partecipare -“Ma davvero?!? Interessante!”- Rask si sentì scuoiato e un focolare di nausea gli si accese nel ventre. Anche lui si occupava di bellezza, lui, sì, sapeva modificare la materia, farla agire reagire e gridare, lui aveva da proporre i suoi metalli, e..la bellezza dei metalli, sin dai 12 anni lui avrebbe voluto...Si guardava intorno smarrito, le poche foto appese le conosceva a memoria e non facevano che acuirgli il malessere, fissava gli smalti curati e i foulard e le camicie e i tagli e i ciuffi e i cravattini a rombi, ma la voce d'acqua liscia di Aldo pareva l'unica emissione sonora, a felpargli le orecchie. Con disinvoltura articolava parole, scandiva, un sorso di prosecco, battuta, risata..Ecco, il prosecco: lui era lì per scrocco, era un parassita, uno studente, non un artista, doveva mangiare, bere gratis, era lì perché..
Ma di fronte al buffet si vergognò senza ragione, e l'unico drink glielo porse Aldo sorridendo.
“Bella serata, vero?! Buona notte, Rask, a presto”. Possibile non si fosse reso conto del malore marchiato a fuoco sul suo viso rappreso? Il solito approccio ottimistico al mondo rendeva Aldo agevolmente cieco.
(Emilio Smunti 2011)
-CONTINUA-

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