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lunedì 12 gennaio 2015

CI GUARDANO E CI ASCOLTANO di isabnic





CI GUARDANO E CI ASCOLTANO

Eh, sì. Sembra un papero quando arranca sulla sabbia. Bianchiccio, impacciato, un po’ depresso. Guarda a terra, forse è colpa delle sue scarpe strane… larghe? strette? Comunque, inadatte. Come se stesse prendendo un autobus e si accorgesse di essersi dimenticato i pantaloni. Spesso rimango indietro a ciondolare. Lui si volta, mi fa un gesto.  Lo raggiungo lentamente.
-         -  Ma che fai? Ti rifermi?
La spiaggia appare ormai quasi vuota.  Qualcuno è tornato a casa, qualcun altro è risalito verso i punti ristoro in legno lungo la strada che costeggia la spiaggia. Laggiù, un puntino nero lontano, poi il ricciolo della risacca. A sinistra un tubo di metallo. Mi piace correre contro vento. Un tempo anche lui l’amava.
Ora ci fermiamo; c’è solo il mare davanti a noi. Una sottile linea azzurra con uno spumoso cuore bianco, che divide il cielo dalla spiaggia. Quel puntino lontano ora sta entrando o uscendo dall’acqua. Più vicino, il tubo di metallo ricurvo, il bracciolo della sdraio scolorita. La mano che stringe il giornale piegato, poggiato sul ginocchio. Il Papero si è addormentato e fermo sul suo povero trono vola chissà dove e chissà quanto lontano. Anche io mi allungo all’ombra dell’ombrellone che lui ha piazzato e cerco un po’ di fresco.
Mi guardo intorno e, da qui, intravedo colori di asciugamani e parei a terra. Qualcuno si è messo accanto a noi. E poi, un altro puntino nero nell’acqua,  un ”vulcano” di sabbia sulla riva. Non fuma, però; dorme anche il vulcano.
Ora il Papero si è svegliato, ma –io lo so- continua a sognare leggendo un libro fitto di parole. Gli occhiali, con la montatura rossa trasparente, risaltano sui capelli tagliati da poco e irrimediabilmente ingrigiti. Le strisce della tela della sdraio si scontrano con quelle altrettanto scolorite del suo asciugamano sulla sabbia, e quest’ultima si confonde con la peluria delle sue braccia. Forse il Papero sta  sorridendo perduto chissà dove e chissà quanto lontano, mentre il mare è immobile. Io mi allungo. Comincio a avere sete.
Quella montagna celestina sul mare, laggiù in fondo, è la stessa dove Ulisse in cerca di cibo si ritrovò “con compagni imporcellati a desiderare la maga ammaliatrice”. Me lo ha detto lui l’altra volta. Oggi non racconta niente. Sta lì, immusonito. Non parla.
Dietro di noi rari bagnanti, qualche casa rubata in barba al demanio, cartelloni di avvisi di balneazione non sorvegliata e orme di uomini e gabbiani. La coppia sdraiata a prendere l’ultimo sole in riva al mare tiene i loro funerei zainetti ritti a terra, vicini alla testa, come pietre tombali. Lei, a pancia sotto, dea della terra  a covare i semi della futura progenie, forse guarda di soppiatto, mentre lui, naso all’aria, sembra concentrato a solcare strade siderali.  
Ora il Papero scrive sul suo taccuino nero; il libro chiuso con la foto dell’autore in copertina sulle ginocchia, coperte dal vecchio asciugamano come tardiva difesa ai raggi del sole ancora  cocenti. Il mare pare sempre lo stesso. Forse è dipinto. “Come una nave dipinta su un mare dipinto”- sempre lui me lo ha detto, anzi l’ha letto. Bello.
Mmmm… forse non mi dispiacerebbe entrare in acqua, ma lui oggi se la prende comoda, anche se è tardi.
Alla sua sinistra, la coppia funerea non c’è più, altri hanno preso il loro posto. Un jogger in maglietta scura si avvicina mentre un gruppo di giovani sguazza spumeggiando, dandosi spintoni e nascondendo la testa sott’acqua. Le loro voci, risate,  tonfi e sfottò urlati contro il mondo rimbalzano sulla nuca del  Papero scrivente. Il tubo metallico con la sua tela sbiadita li tiene lontani, cerchio magico, muro trasparente. Ma il suo orecchio è vigile, pronto a cogliere il silenzio.
Il jogger, occhiali da sole, sguardo a terra, ventre prominente, passa affaticato davanti al nostro ombrellone:
 - ‘giorno!
- ‘giorno!
 I giovani bagnanti, ancora a spintonarsi stancamente, recuperano la riva. Una donna dai capelli rossi sotto un ombrellone variopinto si scuote e si alza a sedere. Si volta verso qui come se si sentisse osservata.
Penso che se potessi riderei, mentre sto con  il muso spalmato sulla sacca di plastica, perché non è lei che guardo. La sabbia appiccicata alla pelliccia comincia a darmi prurito. E poi vorrei bere.
Bauuuuuuuuuuuuuuuuuuu!

(isabnic2015- da una bozza del 2007)

mercoledì 16 aprile 2014

BORSITE (3) di isabnic

Sono nata in un paese umbro, forse l’unico così immodificabilmente  brutto in tutta la regione: Tarnasco.  Stando alle cronache familiari che miravano a nobilitarlo in qualche modo, Tarnasco doveva essere all’origine una stazione di posta per il cambio dei cavalli tra Perugia e Città della Penna,  diventato poi col tempo mercato di animali e alimentari per i paesini, gli agglomerati e la campagna attorno. Sono nata quando ancora i contadini erano tutti comunisti, almeno in quella zona, e la povera parrocchia di Tarnasco era frequentata ogni anno da missionari che tentavano di diffondere la parola giusta. Senza grande successo. Questo negli anni cinquanta. Poi la situazione era cambiata, un po’ come in tutta Italia. La gente mangiò di più, tutti riuscirono ad avere almeno un paio di scarpe e ci fu un tempo per l’anima e la religione anche lì. Arrivò a un certo punto anche un parroco più volitivo, quello che – qualcuno dei  vecchi paesani ancora lo ricorda- quello, dunque, che insegnava il catechismo a suon di gnocchini in testa ed era perfino riuscito a far di mio cugino Gianni un chierichetto.
Don Giuseppe era un omone con i capelli grigio-gialli incolti, con la lunga tonaca nera sempre impolverata e un tocco in testa. Avevo quattro o cinque anni allora e faccio fatica a ricordare  Gianni nel pieno delle sue funzioni di chierichetto perché, anche in quel periodo, proprio non riuscivo a crederci che potesse esserlo o potessero cercare di farcelo diventare.
Mio cugino, più grande di me di cinque anni, era già una vera teppa a quei tempi. Pelle scura, capelli corti e ricci, gambe storte da bambino, ma già fumava di nascosto. Gianni sapeva maneggiare con disinvoltura lo sterzo del camioncino, a motore spento, quando era parcheggiato in magazzino tra pile di piatti e pentole da vendere, e mi portava con lui durante le scorribande con gli altri maschi della sua età, sui greppi incolti dietro casa. Loro facevano la guerra e io aspettavo sotto un albero enorme, dentro una buca di terra fine lì accanto, raccogliendo le ghiande per cucirle insieme con il filo da imbastire e farne collane. Si tornava a casa per la merenda del pomeriggio, sporchi e affamati al richiamo: “ Gianninooooooo! Tornaaaa! Tornatee! Ve dovete custodì.
Questo del custodire era un rituale fantastico nella prima parte, noioso e talvolta doloroso nella seconda. Voleva dire prendersi cura di sé dopo le corse scalmanate e libere, cedere, cioè, e di buon grado, al dovere di tornare nella società civile  per esserne accettati e ciò poteva avvenire soltanto offrendo un’immagine di sé linda e pulita e soprattutto senza confusione o mescolanze di sessi.
Ci spogliavano, e rimasti in mutande, ci mettevano dentro la vasca-lavatoio di cemento fuori in terrazzo. Ci insaponavano  viso, orecchie, mani, braccia, piedi e ginocchia con sapone da bucato. Noi ridevamo e ci schizzavamo provocando rimbrotti, minacce e tirate di capelli. Poi ci separavano e le mie abluzioni continuavano in bagno; in camera mi mettevano la biancheria pulita, mi facevano indossare un abitino da bimba,  infilare i calzini e i sandali bianchi con gli occhietti. Si finiva con l’acconciatura della chioma: trecce o coda o codini che fossero mi tiravano sempre i capelli mentre io mi muovevo qua e là. Qualche anno dopo avrei tentato di fulminare mia madre durante questa operazione infilando il mio cerchietto di metallo per i capelli dentro una presa a poca distanza dal luogo del mio martirio quotidiano.

Dopo esserci custoditi,  il sodalizio con Gianni  sarebbe stato interrotto almeno fino al mattino dopo. Anche la merenda era solitaria e separata. La mia, consumata svogliatamente perché dovevo prestare attenzione a non sporcare il vestito appena messo, consisteva di fette di pane senza sale bagnate con acqua e vino e spolverate di zucchero, o imbevute di olio e spruzzate di sale( massima allerta e attenzione), o spalmate di marmellate di mela cotogna che non amavo, o accompagnate da un pezzo di carroarmato Perugina. “Perugina”. Si diceva Perugina con un certo tono di orgoglio nella voce, come se il fatto che la fabbrica fosse a Perugia, a venti Km dal nostro paese, e il nonno vendesse questa marca di cioccolata nel suo bar, desse a noi un qualche diritto alla proprietà di quella azienda o all’ identificazione con i suoi proprietari di cui si seguivano gli eventi familiari con curiosità e affetto. (Naturalmente per almeno venti anni della mia vita ho sempre continuato a credere che quella fosse la cioccolata migliore di tutta Italia.)
Oltre a Gianni nella grande casa c’erano anche le due cugine Palma e Martina. Quest’ultima era la sorella di mio cugino, di un anno più grande di lui. Quelle due allora mi sembravano antipatiche, perché  stavano sempre insieme a parlare sottovoce, odiavano Gianni e godevano ogni volta che veniva punito dalle zie e dagli zii. Il ché avveniva abbastanza spesso. Lui si vendicava rompendo o nascondendo o vendendo le loro cose, spiandole e prendendole in giro. Spesso poi si picchiavano o lui le spingeva a terra con forza. Loro urlavano e piangevano e lui veniva di nuovo punito.
Il fatto è che lui era proprio una teppa. Riuscì a vendere perfino l’anello di fidanzamento di mia madre: pare che lo avesse fatto per pagare e, così, poter vedere le gambe o qualcos’altro di una donna compiacente. Gianni rubava sempre anche la frutta dalla dispensa, gli spicci dai comodini                           e mentiva, mentiva spudoratamente. A scuola poi era una disperazione.
Si diceva che il secondo giorno di scuola della sua vita non volesse alzarsi presto al mattino e continuasse a borbottare: “ Uffa, sempre a scola, sempre a scola!” Insomma, un vero asino e pensare che la sua mamma, zia Nora, era considerata una bravissima maestra, molto dotata nel disegno. Era una donna da film neorealista, che, per andare al lavoro, partiva presto al mattino, vestita in tuta, sulla sua motoretta, mentre, invece, la domenica amava indossare abiti molto femminili e gioielli. Per me era un mito perché lei era l’unica tra le cognate a lavorare fuori casa e aveva perciò il diritto talvolta di sentirsi stanca e avere male alle gambe. Doveva anche aver studiato in una grande città e frequentato parenti molto ammodo.
 Ma quando non si usciva per i campi, il gioco più bello con Gianni si svolgeva in camera sua, sul tappeto al lato del letto. Questo scendiletto diventava il nostro mondo e i pomeriggi lì sopra volavano via fino all’ora di cena, quando la stanza diventava buia e cominciavano i richiami delle zie. Era un tappetino di stoffa a trama fitta, con disegni geometrici beige, marroni, verde chiaro e scuro come una mappa di Google, il nostro mondo visto dall’alto. Lì mettevamo la casetta- salvadanaio dell’INA Casa, e altre scatole di cartone. Poi Gianni prendeva le automobiline e i camion della sua collezione, qualche alberello finto di plastica e le case e gli alberghi del Monopoli, e si cominciava. Lui era un ricco signore con Ferrari che raggiungeva la sua fabbrica con i camion in miniatura parcheggiati lì davanti, io -sua moglie- con una bellissima fuoriserie decappottata rosa, molto americana, potevo andare a trovarlo o a fare spesa nel paese vicino alla nostra villa. Talvolta avevo degli incidenti lungo il percorso e lui poteva venire in mio aiuto e trainare la mia auto con un pick-up della sua collezione. Potevano anche esserci degli inseguimenti con la macchina della polizia, ma noi eravamo sempre troppo furbi per farci raggiungere e multare. C’era già in questi giochi, architettati principalmente da lui, qualcosa della sua futura visione del mondo che non avrei poi condiviso, ma allora tutto ciò mi sembrava decisamente nobile e eccitante.

Qualche anno dopo mi propose di investire i miei risparmi nella sua banca privata. Non c’era nessuna banca naturalmente, ma era un modo di farsi prestare soldi visto che il padre e la madre, scontenti del suo comportamento a scuola,  gliene davano ben pochi. Mi propose dunque di dargli i miei soldi che mi avrebbe restituito con un certo interesse dopo un po’. Io rischiai sconsigliata da tutti,  ma lui -a dire il vero- me li restituì davvero con il guadagno, come pattuito. Però, saggiamente, non volli rifarlo e quando, dopo molti anni, fece qualcosa del genere con mio padre,  ho sempre pensato che così facendo avesse contribuito in modo consistente alla rovina finanziaria della mia famiglia.
(isabnic 2009)
-CONTINUA-

AVVERTENZA: Fatti, nomi e situazioni sono forse parzialmente veri, ma anche assolutamente falsi e stravolti come ogni ricordo che si prova a raccontare, quando ti ci prende gusto a farlo e quando soprattutto ti chiedi perché dovrebbe interessare a qualcuno. Certo, ripulire la testa, riordinare i ricordi che non usi tutti i giorni, come programmi non utilizzati sul desktop, fa star meglio. E se lo scrittore sta meglio, i familiari ringraziano. 
-CONTINUA?-

sabato 12 aprile 2014

BORSITE (2) di isabnic


BORSITE (2)

"Sì, ho quasi sessant’anni, come il capitano Achab,  e il mio ginocchio sinistro da qualche giorno si è fermato. Non riesco a tenderlo, né a piegarlo. Ho un dolore lancinante, continuo e pulsante nella parte interna del   ginocchio. Forse è anche un po’ gonfio e arrossato.
Insomma, sono immobilizzata a letto. Meno male che in questa stanza ci sono due finestre che quasi si fronteggiano, e posso seguire il tempo che passa osservando il variare della luce sulle facciate dei palazzi dirimpetto, mentre cerco di indovinare  la vita in quegli interni misteriosi improvvisamente illuminati  dietro le tendine poco discoste e poi perduti all’ abbassarsi nervoso delle persiane col calare del buio. Mi alzo solo per andare in bagno aiutandomi con il bastone del mocho e una sedia che trascino dietro  per sicurezza. Mangio a letto sul vecchio vassoio di plastica rossa con le zampe, dove è rimasto ancora qualche sticker, ricordo di antiche influenze delle mie figlie.
Qualche tempo fa ho subito una piccola operazione alle gambe e fasciandomi dall’inguine in giù, il chirurgo dai modi galanti mi aveva detto: “Non se le tolga per una settimana e stasera si faccia coccolare.” Tuttavia, non c’erano state coccole allora e forse il mio corpo ora si sta riprendendo una rivincita.
Stanotte è più che mai una notte buia e tempestosa . Squarci luminosi e freddi interrompono l’oscurità filtrando tra le stecche della serrande, che rabbrividiscono per il vento, insieme a borbottii, boati, scariche improvvise e rumore di pioggia fitta fitta. Alcune di queste scariche sono forti e sembrano cadere vicino, seguite da allarmi che entrano in funzione uno dopo l’altro in un coro di gemiti senza fine.Povere piante sul balcone! Povere piante abbandonate da giorni e poveri bulbi messi a dimora secondo istruzioni e ormai probabilmente e inesorabilmente fradici!
Poi alle quattro uno squillo di telefono solitario. Forse quello di stanotte era un segnale, una sollecitazione.Chissà.
  Dormo qui, da sola. Mi piace dormire in stanze non completamente oscurate e sapere quando arriva il giorno. Ma stasera questi lampi sono violenti e continui. Sento il vento che batte con violenza il telo di plastica sul balcone.
... Luce forte e calda,  vento che solleva granelli di sabbia che bombardano la schiena arrossata dal sole. La spiaggia è una ripida discesa di rena fine e dorata, siamo soli e l’acqua del mare sembra fremere sotto il soffio del vento. Ho addosso un buffo costumino di lana con bretelle. La mamma ride felice mostrando i bei denti alla macchine fotografica del papà e io alle sue spalle piango. Mi sento sola e ho paura. Sicilia 1954, forse. Il mondo dei ricordi è ancora in bianco e nero, con i bordi frastagliati.
Si è sturato improvvisamente il passato e non è brutto, come temevo. E’ come rivedere un parente che da tempo non si frequenta più. Sorridi affettuosamente a certe immagini o parole che vengono in superficie senza un ordine apparente. Poi, appena ti lasci prendere da una di queste, altre cento appaiono accanto. Aggiusto il cuscino e mi racconto la mia storia.

Della Sicilia, Calabetta per essere esatti, non ricordo molto: un appartamento vuoto in cima a tante scale, papà che mi porta in braccio addormentata, io piccolina a letto tra i miei genitori con la radio accesa mentre tocco i lobi delle loro orecchie. Un piacere segreto da praticare ancora in solitaria. Poi un’altra casa, con veri mobili e un ombrellino rosso con il manico di osso a forma di testa di papera. Un viaggio in treno con il nonno, dalla Sicilia a Tarnasco, durante il quale rimango chiusa nella toilette. Terrorizzata dal rumore, dal dondolio, dall’indifferenza di quel treno che continuava a correre e fischiare coprendo la mia voce in cerca di aiuto,  mi ferisco a una mano per cercare di aprire e piango. Arrivati in paese trovammo la neve: non l’avevo mai vista, e mi sembrò così accogliente che mi ci buttai dentro e tentai di nuotare dentro a quel mare fermo e silenzioso.
(isabnic2007)
-CONTINUA-



lunedì 24 marzo 2014

BORSITE (1) di isabnic

*  Il grande romanzo italiano ha come titolo il nome comune di una malattia, di un impedimento, di un impiccio, che da una parte ossessiona la protagonista prosciugando qualsiasi forza creativa originale, dall'altra le offre una condizione di stasi, di distacco dal flusso del quotidiano, che permette di attivare la memoria personale senza eccessivi sentimenti di colpa. Incipit tradizionale che sfuma in un lungo flashback.
Dettagli realistici, filtrati attraverso l'esperienza sensoriale,  e ampia variazione di registri. Circolarità (= vicus of recirculation back to...).

** Borsite: "processo infiammatorio della borsa sierosa di un'articolazione. Quando si verifica una borsite il movimento del tendine diviene difficile e doloroso. Inoltre, il movimento dei tendini e dei muscoli sulla borsa infiammata aggrava l'infiammazione, perpetuando il problema".(Wikipedia) 


*** Sedi: "Le sedi più comunemente soggette ad un processo di borsite sono:
  • olecrano subdeltoideo, detta anche "gomito dello studente"
  • trocanterica
  • radioomerale
  • prerotulea (prepatellare), detta anche "ginocchio della lavandaia"
  • infrapatellare, detta anche "ginocchio del posatore"

                                            

                                                                                        BORSITE 


C’era voluto il ginocchio sinistro infiammato per lo stripping delle safene a tenerla a letto per due settimane.  A parte un paio di giorni dolorosi, durante i quali era rimasta sdraiata a osservare il soffitto, era poi riuscita, grazie a quel forzato riposo, a finire la rilettura di Moby Dick. Fantastico. Altro che “racconto marino sulla caccia ossessiva del capitano Achab alla balena bianca”, come era scritto in copertina. C’era ben altro! e in quella notte di tregenda in cui Roma veniva colpita dal più tremendo nubifragio dell’ultimo secolo e il fiume minacciava di esondare, tra bagliori di lampi, clamori di tuoni e urli di sirene di allarme, aveva letto in contemporanea le pagine sull’arrivo del tifone sul Pequod e quelle sulle tre ultime notti di caccia, fino all’epilogo della salvifica balena. Poi, esausta, era crollata in un profondo sonno denso di immagini e di voci lontane.

Come Achab aveva quasi sessant’anni. (...)
(isabnic 2007)

domenica 17 giugno 2012

da SAFECRASH: Promises are promises/Ogni promessa è debito


Mi ha aperto. Così, ingenuamente. Pensa ancora che potremmo parlarne. Io non voglio sentire nulla, non voglio più sentirmi rivoltar lo stomaco. Appena dentro, lei si volta per farmi strada. 
  - Andiamo a sederci da qualche parte, dice e io l’assalgo alle spalle come ho già immaginato in tanti sogni durante tutto questo inverno. Non se lo aspetta e così stringo il cordino che ho messo lestamente intorno al suo collo. E’ incredibilmente forte, si ribella;   rotea quegli occhi di cui tra breve farò scempio. Annaspa, cade e mi tira a terra con lei. Avvinghiate, come amanti.
   Il pavimento della cucina è freddo, ma un sudario di sudore ci avvolge; stringo ancora e sento che sta resistendo sempre meno.
     Ormai è solo un rantolo. Ancora ho la forza di alzarmi. Tremo, ma il batticarne sul tavolo può aiutarmi a finirla. Anche strapparle gli occhi non è facile, e anche piuttosto rivoltante.
     Lo svuotamele. Ecco cosa ci vuole. Non è difficile trovarlo: è sempre stata una maniaca del buon mangiare e nella sua cucina non manca nulla. Tutto in perfetto ordine.
     Poi, le vomiterò in bocca. Aprire lo sterno per estrarne il cuore sarà difficile e faticoso ma tra quei coltelli affilati messi in fila sul ripiano ce ne sarà pure uno adatto. Ecco. 
     Sudo, sono lorda di sangue e gonfia di schifo, ma il più è fatto.
Tolgo il cuore -che darò al gatto del giardino, qui sotto- e al suo posto metterò il cellulare che sono riuscita a sottrargli prima di uscire da casa.
    Mi scopriranno. Sono sporca, ho fatto rumore, lasciato impronte. In tanti mi hanno vista arrivare e mi vedranno uscire. Non passerò inosservata. Più di un amico sa che desideravo farlo.
Non importa. giusto il tempo di passare al mercato e prendere da Angelina-lacontadina le zucchine del suo orto, quelle che mi ha messo da parte. Gliel'ho promesso.  (isabnic2007)
                             
                            

martedì 10 aprile 2012

da SAFECRASH/ Cocciniglia



4. COCCINIGLIA

Quando la polizia arrivò trovò le tre donne immobili come statue di sale. La più grande delle due giovani fu la prima a riscuotersi e parlare. L’altra cominciò a guaire, poi a contorcersi a terra e a lanciare lunghi urli ripetuti. I vicini, accorsi all’arrivo delle due figlie nell’appartamento del quarto piano, si erano sistemati poco lontano dal letto, ma dall’ altra parte rispetto alle tre donne, come figurine di un presepe, col capo chino e, se ce lo avessero avuto, col cappello in mano. La madre non si mosse. Era come arrotolata su se stessa; con gli occhi sbarrati  e freddi. In mano stringeva un’incongrua bomboletta di metallo.
La stanza, nella penombra di una luce filtrata dalle serrande ancora semiabbassate, appariva con quel tanto di familiare disordine che si trova al risveglio di persone che a lungo hanno vissuto insieme. L’aria era calda e nonostante i vetri fossero sfessurati c’era ancora un sapore di sonno, sudore e vestiti tolti in fretta. Su tutto però si era posato quell’odore acre che il commissario Fabbri non tardò a riconoscere: GAYGAN 22 . Era quello stesso che lui usava ormai da due stagioni per contrastare quelle maledettissime cocciniglie che si erano impadronite del suo terrazzino spesso dimenticato.
Finchè Luisa era rimasta a vivere con lui se ne era occupata lei.
Luisa. Lui aveva creduto che con lei sarebbe durata per sempre. D’altra parte ogni volta e ogni cosa gli era sembrato che potesse durare per sempre. In polizia c’era arrivato tardi, dopo anni di lavoro nello studio dall’avvocato Sartori. Alla fine del’Università, non era più tornato a Penne dai suoi ed era rimasto a Roma, dapprima in quella stanza arredata, odorosa di gatti, dalle parti di Piazza Bologna, poi a Prati, in un bilocale con terrazzino, fortunosamente trovato grazie alle amicizie del vecchio Sartori.  C’era andato a vivere insieme a Luisa che allora ancora lavorava come segretaria dell’avvocato.
L’aveva amata come un disperato. Anche lei dopo un iniziale momento di diffidenza si era fatta prendere da questa storia e si erano dunque amati, desiderati per almeno dieci anni ma sempre con l’ansia di non voler soffrire. Ognuno dei due si era tenuto una specie di via di fuga, un gioco segreto scaramantico che permettesse di non lasciarsi andare fino in fondo.  [...]
Intanto era arrivato il medico per constatare il decesso dell’uomo rannicchiato sul letto, con il volto butterato e gli occhi spalancati dallo stupore. Fu una cosa piuttosto rapida. Il cuore. L’antiparassitario aveva forse accelerato un processo già in atto.
La madre volle restar sola con il commissario ed allora cominciò a parlare. Lentamente, per poi diventar sempre più concitata,  ma abbassando, al tempo stesso, il tono della voce fino a farlo diventare un sussurro. Fabbri seduto al tavolino della cucina con la donna accanto si piegava per cogliere quelle parole urlate a bassa voce. Erano un’accusa e una confessione. [...]
La donna continuò a raccontare, in un sussurro, che negli ultimi tempi non era più uscita di casa, e faticava a muoversi persino in quelle quattro stanze. Fabbri le si accostò ancora di più per udire le sue parole. E il sussurro riprese.
Quella mattina, - doveva essere il giorno in cui si era accorta che erano spuntati gli alchechengi e c’erano le cocciniglie sul rincosperma - lo aveva colto sul fatto. Semisdraiato a letto, nella semioscurità della camera con le serrande ancora abbassate... [...]
(CONTINUA)

domenica 1 gennaio 2012

da SAFECRASH/ Ricette per scrivere

6. RICETTE PER SCRIVERE (il binomio fantastico)


Quando gli fu chiesto di scrivere una storia in due cartelle utilizzando due parole trovate per caso sul vocabolario, non aveva certo pensato che avrebbe potuto essere così sfortunato: “Stone Age” e “Firebrigade”.
Il Cambridge Advanced Learner Dictionary si era aperto in quelle pagine e i suoi occhi si erano posati su quei due composti. Né gli andava di imbrogliare e di ritentare subdolamente ancora. "Stone Age" e "Firebrigade" .... Che avevano in comune? C’era già il fuoco? Cazzo! Non gliene era mai importato granchè della storia delle origini e di solito, a scuola,  si studiava all’inizio dell’anno quando ancora c’era il sole caldo e la luce del mare sembrava molto più attraente di una qualsiasi lezione.
E poi il tempo dato per questa cazzata di esercizio era solo mezzora.
La prima cosa che gli venne in mente fu la storia di un gruppo di coraggiosi vigili del fuoco/ firemen alle prese con le rovine fumanti delle Torri Gemelle e risucchiati da un misterioso loop temporale che li riporta indietro nel tempo fino all’Età della pietra, qualche avventura più o meno negativa e il ritorno al proprio mondo con animo più tollerante e pieno di aspettative per il futuro. La prof di Inglese avrebbe apprezzato questo uso del sci-fi collegato alla realtà. Poteva chiaramente vedere la sequenza delle prime immagini, ma poi scartò l’idea perché - si disse- forse aveva bisogno di uno spazio maggiore di due cartelle.
Allora pensò ad una storia fantastica di due sostantivi composti (compound nouns) in un mondo di sostantivi semplici, una Flatlandia con le parole, modello-Orsenna. La prof di Inglese ne sarebbe stata entusiasta  e...  Nah, ancora non ci siamo.
Cominciava a sudare, e guardando di sottecchi Elena Brilli seduta alla sua sinistra e completamente presa dal compito, cominciò a raccontarsi  una storia d’amore tra Stone Age, uomo precocemente invecchiato e incapace ormai di amare e desiderare, e Firebrigade, donna ingenua anche se matura anagraficamente, che sperimenta tardivi tormenti d’amore e scopre di aver perso amici, amanti e giovinezza nel tentativo di mantenere gli impegni fissati nella sua agenda. Trattenne a stento uno sbadiglio e cominciò a buttare giù il profilo di un paio di personaggi: una coppia di squinternati ubriachi e strafatti oppure due lottatori di wrestling in costumi astrobolici che riflettono sulla vita, o ancora due medio-squallidi insegnanti di liceo chiamati così dai loro studenti…
Chissà cosa quei bambini,  a cui originariamente era stato dato questo esercizio di scrittura -come aveva detto la prof- avevano inventato? Cominciò ad agitarsi sulla poltroncina di gommapiuma ricoperta di una ridicola fodera rosa shocking e si impose di fare come loro, i bambini: lasciarsi andare, cercare di vedere qualcosa e poi inseguirlo. Allora iniziò a scrivere una lettera.
                 
Elena,  è da settembre che vengo qui due volte a settimana dalle 16.30 alle 19.30. Mi impongo di seguire la presentazione introduttiva di brani di autori delle diverse letterature,  di trovare divertenti gli esercizi di riscaldamento e mi sforzo di trovare qualche idea per inventarmi una storiella e azzittire così la nostra logorroica prof.
Elena, la verità è che non riesco a togliermi dagli occhi il tuo viso, il tuo corpo, i tuoi capelli... 

lunedì 14 novembre 2011

da SAFECRASH/ Contributi da pagare, di isabnic (2010)



 5.  CONTRIBUTI DA PAGARE
                     
L’odore era acre, di olio minerale. 
Era arrivata da un quarto d’ora, ma le cinque donne che la precedevano, tutte sedute in attesa, non si erano mosse. Con un certo nervosismo, quella accanto a destra, giovane e scura di pelle, cercava un po’ di refrigerio sventolando una fotocopia della sua carta d’identità. 
C’era già stata l’inverno prima. Peggio, molto peggio. Se non altro, oggi, la luce era meno gialla, la porta sulla strada era aperta e lasciava entrare un po’ d’aria. Calda. 
C’erano due porte sormontate da vetrate opache davanti alla fila di sedie di plastica e metallo allineate alla parete dove sedevano le donne. Una delle due porte era chiusa ad eccezione di un oblò esagonale attraverso il quale filtrava della luce al neon. Una targhetta di plastica gialla con la scritta a stampatello rosso diceva “Patronato ACLI- Ufficio”. Le voci che venivano da quella stanza erano ovattate con andamenti ad onda. Quando tacevano, tutte le donne che aspettavano in fila trattenevano il respiro, per poi lasciarsi di nuovo andare appena si riudiva quel mormorio di risacca. 
L’altra porta era aperta su di una stanza che sembrava vuota ad eccezione di un tavolo grigio, un cestino per le cartacce e una sedia sulla quale sedeva un uomo corpulento con il faccione arrossato e i pochi capelli ancora scuri. Sudaticcio, apparentemente nullafacente – forse c’era un giornale sulla scrivania che lei non riusciva a scorgere a causa dello stipite. - Mi faccia vedere… No, non la posso aiutare. Deve aspettare. Oppure venire mercoledì dalle 15 alle 19. Mi dispiace. Deve aspettare.- ripeteva senza grandi variazioni a chiunque delle donne in fila cercasse di forzare il destino e ridurre l’attesa. 
Quando la porta si aprì ne emerse un donnone in controluce. La riconobbe subito: non poteva essere altri che Maria Badus: Erano passati almeno cinque anni, ma era sempre la stessa. I capelli cortissimi, dall’incerto taglio e di un biondo limone, incorniciavano un volto un po’ gonfio; la pelle era chiara e trasparente, gli occhi di un celeste annacquato con ciglia corte e chiare. Il doppio mento, di cui qualche tempo addietro, in uno di quegli infiniti pomeriggi quando la vecchia Clelia dormiva, avevano a lungo parlato, non era stato ancora operato, come Marion si era ripromessa. Le braccia forti contrastavano con le spalle strette e il modesto seno, per accordarsi, però, con i poderosi fianchi e il sederone. 
Come uno strascico dietro ai teutonici sandali di Maria si srotolò la voce querula della delegata del Patronato: 
- State qui da due ore e non avete visto l’orario! Non volete vederlo! Dalle 15 alle 19! No, la mattina no!- e ancora, - Sono stanca, senza interruzione dalle tre. E poi, non capite. Non capite l’Italiano. Non capite niente. Devo ripetere sempre la stessa cosa. 
- Maria! 
- Signora ‘Rene! Bello! Cosa fai qui? 
Le raccontò, baciandola sulle morbide guance, di certi cedolini che doveva compilare e Maria, invece, le raccontò che era tornata in Italia da sei mesi, aveva trovato una signora in cerca di badante; i figli si erano ormai laureati a Kiev; la zia Stefania lavorava sempre dalla stessa signora e – Io guarita, ora. 
Si, è vero l’ultima volta l’aveva incontrata in ospedale. Un corridoio diviso da tramezzi e accanto a lei un altro letto. Maria continuò a dare informazioni più o meno dettagliate sulla sua salute, sugli ultimi medicamenti e la recente scoperta di un chirurgo ucraino di cui avevano parlato tutti i giornali. Irene ascoltava a metà, cercando di sorridere comprensiva, ma il suo cervello si rifiutava di essere gentile e di stare in quella sala d’attesa. Le sue gambe si erano irrigidite, come pronte a scattare, in cerca di una possibilità di fuga. Discreta, ma pur sempre una fuga. 
Quando, allora, Maria le aveva telefonato per dirle che era stata ricoverata per accertamenti e che molto probabilmente avrebbe dovuto subire una operazione, Irene aveva sentito subito l’impulso di starle vicina. Così sola, lontana dalla famiglia, ma già per strada, camminando velocemente per raggiungere il vicino ospedale, se ne era pentita. Faceva caldo, nonostante fosse appena metà maggio, e ............ [...]   (CONTINUA)