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lunedì 29 febbraio 2016

UN MATRIMONIO DURATO A LUNGO (2) di isabnic



 da Ale racconta

"... Beh, insomma, nonno era sempre andato a letto presto la sera, mentre nonna rimaneva seduta a guardare i programmi alla televisione. Le piacevano i salotti televisivi con le persone famose. Però lui non dormiva subito. Dice nonna che quando lui andava di là, nella stanza da letto, si preparava molto lentamente, poi spegneva la luce grande, accendeva le due abat-jour sui comodini e si metteva a leggere il giornale o faceva le parole incrociate. Poi, -pare -  che dopo un'ora cominciasse a chiamarla. Magari due o tre volte. Allora lei dopo un po', approfittando della pausa pubblicitaria, andava a vedere di cosa si trattava e immancabilmente lo trovava lì seduto a letto con gli occhialini addosso e il pigiama a righe tristi. Al vederla sorrideva e gli faceva: - Silvia!... ma domani che mi prepari per pranzo?
Che mi prepari per pranzo domani?, ma te lo immagini? Per quasi cinquant'anni?
Magari all'inizio non era proprio così."
[...]

(isabnic2016)

domenica 14 febbraio 2016

UN MATRIMONIO DURATO A LUNGO di isabnic

UN MATRIMONIO DURATO A LUNGO
(da Ale racconta)


- ... nonno ancora caldo di là in camera; le zie e la nonna in salotto. Pianti, disperazione. Non era più giovane quando è morto, e da anni si sapeva che aveva ogni tanto modi da arteriosclerotico, ma era stato un padre esemplare e un modello di uomo affascinante per le figlie. Non a caso zia Tita non si è mai sposata. Sì, lui era un artista, un grande affabulatore. Bella voce, anche quando intonava qualche aria di opere italiane. Per la moglie, poi, era stato il primo e unico uomo della sua vita. Avevano vissuto come in simbiosi. Per quasi cinquant'anni, tutti i giorni. Giorno e notte. A parte quando lavorava, naturalmente. Poi, da quando erano in pensione sempre insieme, davvero. Quando vedevi arrivare lui, dopo un attimo compariva anche nonna. Magari accaldata e con il grembiule addosso. E' sempre stata brava a cucinare e le piace. Almeno così le avevo sentito dire tante volte. "Eh! come cucina Silvietta, nessun'altro." affermava nonno sorridendole pieno di complicità, quando portava qualcosa a tavola. Lui diceva che non s'erano mai coricati senza prima rappacificarsi. Eppure i motivi qualche volta ce n'erano stati. Pare che ci fossero una o più signore che lui andava a trovare con una certa regolarità. Ma la sera era sempre a casa puntuale e poi faceva sentire nonna come una regina: regali, qualche viaggetto, piccole tenerezze nei suoi confronti davanti a figlie e nipoti. Sempre. Mai uno screzio.
Beh, insomma, nonno ancora caldo di là in camera e dopo due ore nonna si acqueta, sta un po' zitta e poi fa: "Io la sera non cucino più."
E non l'ha più fatto.-

(isabnic2015)

martedì 19 gennaio 2016

SOLE NERO (seconda parte) di isabnic



SOLE NERO (prima parte): http://gogosafecrash.blogspot.com/2016/01/sole-nero-prima-parte-di-isabnic-2015.html


                                    SOLE NERO (seconda parte)


[...]
Ripresi a suonare. Le note di Mara no more che stavo improvvisando si allungavano piene di dolore. Mi sentivo solo, ero solo. Chissà Mara ormai dov’era. Scomparsa con tutte le sue parole. Ora però il silenzio era troppo e mi pareva di sentire perfino l’eco dei miei pensieri. Mara no more… dark loneliness vibrating… ‘long my baaackbone.  Mi sarebbe piaciuto se quella creatura tremante, lì dietro al divano, si fosse fermata, se soltanto mi avesse risposto. Chissà chi mai poteva essere e perché era tanto spaventata. Mara no more… staring and staring downthere/ blacKberry lips ‘mid rotten leaves… Forse avrei dovuto imporre il mio aiuto, ma non me ne aveva dato il tempo. Comunque, basta! Sarei tornato in città prima del previsto. Era inutile rimanere ancora. Neanche la solitudine aveva funzionato. Non avevo più idee, avevo perso le parole, le immagini e  i suoni che avrei voluto narrare stavano lì ammutoliti come sotto una colata di cemento.  Tutto inutile. Avrei restituito le chiavi alla padrona di casa. Per un po’ avevo creduto che in quello spazio avrei potuto riprendere a scrivere, ma tutto inutile, ormai. Una fontana asciutta. Avrei cominciato subito i preparativi per il rientro. Dove? L’avrei deciso l’indomani.
Sentii un grido venire dalla parte del bosco. No, forse doveva trattarsi di un richiamo, un verso d’uccello, uno dei tanti che mi sarebbe piaciuto riconoscere, avevo pensato. Poi delle voci, dei latrati ancora lontani… Forse cacciatori poco mattutini, al ritorno da una spedizione.
Stavolta, però, smisi di suonare perché subito dopo dei colpi secchi alla porta tra un abbaiare di cani che si era fatto sempre più vicino sembravano richiedere una risposta immediata. Aprii e davanti a me si materializzarono tre guardie forestali tra un cinque-sei cani che saltavano, e abbaiando quasi all’unisono tendevano caparbi i guinzagli che li tenevano legati agli uomini.
-          - Buongiorno! … (buoni!) Mi scusi, parliamo con il signor Frassi? (Giù, Rocky!) Abbiamo visto il suo nome al cancello.
-         - Mi dispiace, sono solo l’inquilino. Credo che il signor.. anzi la signora Frassi viva in città. Ho affittato lo chalet per questo mese.
-         -  Lei è il signor…?
-         -  Ubaldi. Mirko Ubaldi. Ma… ?

Mi guardai le mani. Rosse. Dovevano essere state le more. Avevano lasciato tracce anche sul metallo lucido del sax. Si, le more avevano macchiato tutto. Mi accorsi che i forestali  posarono -nello stesso momento- lo sguardo sulle mie mani, sulla camicia, le scarpe, e infine mi fissarono in volto quasi ammutoliti. Dovevano anche aver visto qualcosa dentro casa. Uno dei tre scandendo le parole disse: - Signor Ubaldi, c’è un corpo di donna tra la siepe di bordura e la rete di recinzione del suo giardino. Un corpo senza vita, graffiato dai rovi.  L’hanno trovato i cani. È in... Abbiamo già allertato la polizia che sta arrivando. Magari un paio di noi possono entrare a parlare un po’ con lei… Possiamo anche rimanere qui all’ingresso. Non si preoccupi.

Non so cosa sia successo dopo, signor Giudice. Devo essere svenuto e mi sono ritrovato dopo un po’ di tempo altrove, tra gente sconosciuta e vestita di bianco. Ora eccomi qui. Crede che mi permetteranno di riavere il mio sax?

(isabnic2015)

domenica 17 gennaio 2016

SOLE NERO (prima parte) di isabnic 2015

SOLE NERO

Avevo sentito un brivido corrermi giù per la schiena. Era molto presto e l’umidità che saliva dal terreno della macchia ci aveva inzuppato pian piano le scarpe. Eravamo ancora  in cima al poggio, ma ormai deluso avevo abbandonato ogni tentativo di vedere qualcosa. Ancora tempo perso, sottratto al mio lavoro, avevo pensato. Doveva essere una delle tante leggende metropolitane l’idea di usare le lastre delle radiografie, mi ero detto. Lei aveva insistito, querula, con quella voce che un tempo avevo amato, ma  tutto quello che eravamo  riusciti a scorgere erano soltanto ombre grigiastre, sfumature opache di grigio malato, mentre gli animali nel bosco lì intorno tacevano quasi sconcertati da quel buio inaspettato e improvviso. Come in attesa, in attesa di chissà che. E ancora la sua voce inutile, che feriva quel silenzio. Se solo tacesse per un po’, avevo pensato stringendole il polso. Tutto mi pareva sospeso, quasi un cristallo leggero che un piccolo rumore avrebbe potuto infrangere. Era un’eclissi di sole e il mondo era come sottosopra.
Deliquium solis, ecco come si chiamava! È il sole che ci abbandona, ci lascia nella notte, ciechi, soli. Dio è morto e l’eclisse nasconde tutti i delitti, i nostri segreti mostruosi. Sapevo che in quei minuti nulla può essere più normale, e me lo ero ripetuto come un mantra, quasi per farmi coraggio. Proprio allora mi era tornata in mente la voce di mia nonna quando bambino avevo assistito a quello stesso fenomeno: -  Ecco! Questo è il Sole nero, segno di collera divina, presagio di sventure-  aveva detto a me e ai miei cugini- Su! battiamo le mani, bambini, facciamo rumore, scacciamo i demoni dell’oscurità! E ci sembrò a tutti un prodigio, perché dopo un po’ tutto  tornò come sempre.
Quella mattina dell’ultima eclisse… Non ricordo quanto rimasi lassù con Mara,  ma eravamo infreddoliti e volevamo qualcosa di caldo da metterci addosso. Tornammo indietro con la solita colonna sonora di recriminazioni. “Se solo tu… eh, già! come al solito… Ma possibile che mai una volta… Sempre lo stesso!”, ma non era così. Non almeno quella volta. Sapevo esattamente cosa volevo fare della mia vita e di noi due. Mai era stato tutto così chiaro come in quel momento e glielo avrei detto poco dopo. Le more raccolte e da congelare avrebbero aspettato un po’. Inciampavamo ma la luce traballante della torcia ci portò a casa.
Il sole sarebbe tornato a risplendere poco dopo, indifferente, e avrebbe continuato così  chissà per quanto.  E allora, suoniamo!, mi ero detto. Avevo preso il sax e mi ero messo a suonare. Stringevo l’ancia, lunghi respiri, note straziate che nascevano in testa per poi tornarvi avvitandosi nelle orecchie. Mi sembrò quasi di poter riassaporare quella pace che avevo sentito dentro tanti anni prima  in campagna dalla nonna e i cugini. …Intrecci di luce tremula e voci infantili lontane, la macchia lì intorno che sapeva di sangue e di terra. Anche allora, ma non inciampavo sulle radici che strisciavano sotto il viottolo, come vene segrete che  spezzavano il terreno. Ripensai alla piccola Mara  che quel giorno era stata la prima a sbucare nella radura odorosa di finocchio selvatico, a uscire dal fitto del bosco e trovarsi inondata dal sole, a scoprire quell’unica siepe illibata, carica di more. Se ne riempiva le mani e la bocca e intanto mi chiamava per condividere il tesoro appena scovato.  Fu lì dietro che scoprimmo la carcassa di un riccio ancora coperta da voraci formiche. Sarebbe stato il nostro segreto…

Sempre quel giorno… o doveva essere forse qualche tempo dopo, non sono sicuro, stavo suonando da un po’ quando …  Ignoro quando fosse entrata.  Me ne accorsi all’improvviso.  Gli occhi sembravano quelli di un cerbiatto spaventato, e stava li accucciata al lato del divano. Ansava tremante, quasi stremata da una lunga corsa. Una ragazzina piena di graffi in viso, i capelli corti quasi un velluto, la bocca che fremeva come nello sforzo di voler dire qualcosa. Avevo il sax appeso al collo e appoggiato al petto, con le mani che appena lo sfioravano, insomma, un’ ancora di salvezza in quel momento, mentre il cuore batteva selvaggio. Strano, mi ero detto, dovevo aver lasciato la porta aperta quando ero rientrato.
“Chi sei? Che ci fai qui?” La voce era un po’ roca, ma provai a addolcirla:” No, non aver paura… Puoi restare. Sei ferita? Ti stanno cercando? Ma come… ?”

Allungai la mano per aiutarla ad alzarsi, ma quella scomparve all’improvviso saltando su come una molla e rotolando verso l’uscita. Le scie rosse sul pavimento dovevano essere le more che aveva schiacciato fuggendo via. (continua)

isabnic2015

sabato 17 maggio 2014

BORSITE (4) di isabnic


 Avrà avuto forse sedici o diciassette anni mio cugino Gianni quando organizzò una caccia al tesoro. Non vivevamo  più in paese; nessuno della famiglia ormai perché gli zii si erano trasferiti anche loro nella città lucana piena di vento dove avrei trascorso la mia vita pre-universitaria. Mio padre e gli zii avevano investito a quel tempo un mucchio di soldi per aprire un negozio e avviare un’attività di rappresentanze e, anche se non saremmo mai riusciti a farci accettare dalla borghesia del luogo e saremmo rimasti sempre degli stranieri laggiù, il boom economico di quegli anni migliorò considerevolmente le nostre finanze e i nostri averi. Ci furono allora nuove auto, case e villette al mare, Natali ricchi di doni, viaggi e vacanze lunghe e senza tempo. La città poi non era lontana dal mare con le sue acque verdeazzurre profonde e salate, che lasciavano ghirigori bianchi sulla pelle abbronzata, né da quegli scogli aspri, pieni di ricci profumati che qualcuno mangiava lì a cavalcioni aprendoli con un coltello. Un mare ancora un po’ selvaggio, con un paio di lidi poco attrezzati e ancor meno frequentati.
Quella  caccia al tesoro, organizzata da Gianni e il cui percorso copriva l’intera area della città e giungeva fino al mare, fu un successo:  la partecipazione fu enorme, l’organizzazione perfetta e il ricavato da spartire tra i soci organizzatori fu sostanzioso anche se, forse, alla fine ci fu qualche discussione. Io avevo partecipato alle riunioni organizzative, avevo tagliato i foglietti di carta delle domande, visto i premi, collocate le istruzioni nei posti segreti insieme a Gianni giurando silenzio eterno:  la sensazione che associo al ricordo, insieme al brivido di condividere  qualcosa con quelli più grandi di me, è quella di puro divertimento e gioia.
Lo zio, il papà di Gianni, invece, non si divertì affatto: lo avevano convocato a scuola i professori del figlio per avvertirlo che il ragazzo risultava assente da scuola da venti giorni e che, prima di interrompere la frequenza alle lezioni -del resto piuttosto saltuaria- aveva detto in risposta all’ennesimo rimprovero: - Purtroppo, professore,  non  potrò più frequentare d’ora in poi, perché devo aiutare mio padre in negozio.
Lo zio aspettò il lunedì, il giorno dopo della caccia al tesoro, e senza molti discorsi preparatori riempì Gianni di botte. Tentò anche  di rimandarlo a scuola -una scuola che si chiamava Avviamento al lavoro,  ma poi si arrese all’evidenza e Gianni cominciò davvero a lavorare con lui.
Durò poco, però: tra litigi e discussioni si scoprì che mio cugino aveva già in mano delle rappresentanze di piccoli elettrodomestici e materiale elettrico in diretta concorrenza con lo zio stesso. Pur continuando a vivere a casa con i genitori Gianni, dunque, cominciò a lavorare  per conto suo, usando la sua stanza come ufficio. Con il padre le rare occasioni di comunicazione divennero praticamente nulle.
E con il lavoro arrivò anche il tempo dell’amore. Fu in quel periodo, infatti, che cominciò la vita amorosa di mio cugino e io potei farmi un’idea piuttosto distorta, come più tardi avrei dovuto accertare, di quello che regolava le storie delle persone innamorate. A Tarnasco avevo già e spesso osservato le due cugine con i loro filarini, ascoltato le loro confidenze, partecipato indirettamente - cioè seduta all’angolo come testimone pieno di stupore- alle feste di poche persone con colonna sonora  all’ultimo piano della casa. Un piano che per me insieme alla cantina si tingeva di grande mistero perché ormai disabitato da anni e con una finestrella senza vetri che si affacciava sulle scale da cui mi pareva, salendo e con il cuore in subbuglio, d’intravedere sempre un’ombra. Quello che un tempo doveva essere stato forse uno studiolo, ma ormai serviva come stenditoio durante la lunga e umidissima stagione invernale, fu la stanza che le mie cugine decisero di risistemare. Ci si arrivava attraverso una di quelle stanze interne chiamate camere buie che servivano da disimpegno per accedere alle altre parti del piano. Questa, in alto sul soffitto, aveva uno sportello che ho visto sempre chiuso e che dava sull’abbaino. Si vociferava tra noi ragazzi che quello fosse stato luogo di nascondiglio in tempi difficili e ora era pieno di vecchie cose, topi e vestiti in disuso. Di fronte allo studiolo c’era la porta di quello che considero ancora il bagno più grande che abbia mai visto. Un camerone gelido che si affacciava sulla campagna, con una sperduta vasca da bagno di ghisa smaltata, un ridicolo scaldabagno a colonna con la cesta della legna lì accanto, un paio di bauli, due seggiole e i sanitari moderni di ceramica assurdamente fuori scala. Tutto il piano -non so come o almeno è così nel mio ricordo- non aveva alcun odore particolare, ma dava piuttosto una sensazione sulla pelle di tempo interrotto, di voci appena zittite, porte appena chiuse. Lo studiolo ne aveva una sgangherata e lasciata sempre aperta.

Il giradischi e i 45 giri su un mobiletto basso con la voce di Paul Anka &co, il tavolino con qualcosa da mangiare e da bere (tutto analcolico), le sedie addossate alle pareti, qualche barattolo come portacenere e il pavimento di mattoni che -quello sì sapeva di polvere bagnata- e la festa delle cugine, con l’arrivo dei primi amici, poteva cominciare.  Qualche cha cha cha di gruppo lo sapevo ballare anche io, poi di solito, però, quando cominciavano i  lenti di Neal Sedaka,  venivo in qualche modo allontanata, mandata in missione a prendere altre bibite o qualcos’altro di assolutamente inutile, lontano da quelli che allora consideravo i loro riti segreti. Finché alla fine preferivo rimanere a guardare zia Lucia che lavorava all’uncinetto al piano di sotto e raccontava di sé e dello zio Gino, suo marito per brevissimo tempo, morto in un incidente d’auto. Si erano amati segretamente per anni perché la nonna, la volitiva e segaligna nonna Ida, non gradiva il loro eventuale matrimonio e quando questo alla fine fu celebrato, la fatalità negò per sempre alla zia la possibilità di vivere il suo amore.  Anche delle altre zie e di mia madre avevo voracemente ascoltato le storie d’amore, i primi sussulti e gli incontri pudicamente evocati, fino al finale trionfante del loro matrimonio , che a dire il vero sembrava -almeno ai miei occhi- procedere in modo piuttosto noioso.
Erano rimasti a Tarnasco tutti i luoghi più amati, quelli che ritrovavo ogni anno in quel mese che passavo lì prima dell’inizio della scuola. Lì mi sembrò, anche e per la prima volta, di sentir battere il cuore più velocemente del solito per un ragazzino più alto di me e dagli occhi verdi; e fu lì e allora che sentii nascere una profonda rabbia nei confronti di mia madre che mi obbligava ancora a mettermi degli infamanti calzettoni al posto delle calze lunghe. 
E Gianni? Quella di Gianni non fu una storia classica di innamoramento, secondo i tempi e i modi che avevo potuto osservare in quegli anni, ma una deflagrazione preceduta da uno sbandamento. Fino ad allora lo avevo sempre visto e sentito impicciare con i suoi amici a proposito di automobili, motori da riparare, o al massimo gite in massa a vedere l’arrivo delle milanesi -ragazze del nord o  straniere-  al nuovo Villaggio Vacanze Troubadour, appena costruito sulla costa,  per la stagione balneare. Non so se mio cugino avesse già avuto una ragazza di cui non avevamo saputo nulla, ma tutti sono concordi nel pensare che la bionda occhicerulea Abigail fu il suo primo amore. Breve, perché il pomeriggio stesso del loro primo incontro lui trovò poi quello vero: Àmor, la sorella quattordicenne  della stessa Abigail. Capelli scuri e ricci, occhi viola, questa volta. Un sorriso dolcissimo. Il suo nome, che il padre aveva scelto per amore nei confronti della cultura classica, ora scritto a stampatello con quattro enormi lettere di nastro adesivo rosso, campeggiava sulle due ante dell’armadio di formica finto legno della camera di mio cugino. Era la prima cosa che notavi , sbattendoci quasi contro, quando  capitava di entrarci per svegliarlo su incarico della zia. Tra lenzuola arrotolate intorno al corpo come un mare in tempesta, emergevano le braccia brune come biscotti, intrecciate sotto la testa di ricci scuri che pareva galleggiare in quel mare bianco persa ancora tra i sogni. A questo punto di solito mi voltavo a guardare di nuovo la scritta sull’armadio per verificare che nulla fosse cambiato e annuivo, pensando di aver capito tutto, mentre lui si stiracchiava passando rapido dal sonno alla veglia, quasi in modo inaspettato, pronto a riprendere le sue mille attività.

In quel periodo l’aiutai a scrivere qualche lettera in  inglese, poi Gianni investì tutto quello che aveva guadagnato fino ad allora (aveva compiuto da poco diciotto anni) e partì in nave per l’Australia, paese dove era tornata, perché lì viveva, Àmor con la sua famiglia, quasi deciso a rimanerci per sempre.
(isabnic2014)

lunedì 14 novembre 2011

da SAFECRASH/ Contributi da pagare, di isabnic (2010)



 5.  CONTRIBUTI DA PAGARE
                     
L’odore era acre, di olio minerale. 
Era arrivata da un quarto d’ora, ma le cinque donne che la precedevano, tutte sedute in attesa, non si erano mosse. Con un certo nervosismo, quella accanto a destra, giovane e scura di pelle, cercava un po’ di refrigerio sventolando una fotocopia della sua carta d’identità. 
C’era già stata l’inverno prima. Peggio, molto peggio. Se non altro, oggi, la luce era meno gialla, la porta sulla strada era aperta e lasciava entrare un po’ d’aria. Calda. 
C’erano due porte sormontate da vetrate opache davanti alla fila di sedie di plastica e metallo allineate alla parete dove sedevano le donne. Una delle due porte era chiusa ad eccezione di un oblò esagonale attraverso il quale filtrava della luce al neon. Una targhetta di plastica gialla con la scritta a stampatello rosso diceva “Patronato ACLI- Ufficio”. Le voci che venivano da quella stanza erano ovattate con andamenti ad onda. Quando tacevano, tutte le donne che aspettavano in fila trattenevano il respiro, per poi lasciarsi di nuovo andare appena si riudiva quel mormorio di risacca. 
L’altra porta era aperta su di una stanza che sembrava vuota ad eccezione di un tavolo grigio, un cestino per le cartacce e una sedia sulla quale sedeva un uomo corpulento con il faccione arrossato e i pochi capelli ancora scuri. Sudaticcio, apparentemente nullafacente – forse c’era un giornale sulla scrivania che lei non riusciva a scorgere a causa dello stipite. - Mi faccia vedere… No, non la posso aiutare. Deve aspettare. Oppure venire mercoledì dalle 15 alle 19. Mi dispiace. Deve aspettare.- ripeteva senza grandi variazioni a chiunque delle donne in fila cercasse di forzare il destino e ridurre l’attesa. 
Quando la porta si aprì ne emerse un donnone in controluce. La riconobbe subito: non poteva essere altri che Maria Badus: Erano passati almeno cinque anni, ma era sempre la stessa. I capelli cortissimi, dall’incerto taglio e di un biondo limone, incorniciavano un volto un po’ gonfio; la pelle era chiara e trasparente, gli occhi di un celeste annacquato con ciglia corte e chiare. Il doppio mento, di cui qualche tempo addietro, in uno di quegli infiniti pomeriggi quando la vecchia Clelia dormiva, avevano a lungo parlato, non era stato ancora operato, come Marion si era ripromessa. Le braccia forti contrastavano con le spalle strette e il modesto seno, per accordarsi, però, con i poderosi fianchi e il sederone. 
Come uno strascico dietro ai teutonici sandali di Maria si srotolò la voce querula della delegata del Patronato: 
- State qui da due ore e non avete visto l’orario! Non volete vederlo! Dalle 15 alle 19! No, la mattina no!- e ancora, - Sono stanca, senza interruzione dalle tre. E poi, non capite. Non capite l’Italiano. Non capite niente. Devo ripetere sempre la stessa cosa. 
- Maria! 
- Signora ‘Rene! Bello! Cosa fai qui? 
Le raccontò, baciandola sulle morbide guance, di certi cedolini che doveva compilare e Maria, invece, le raccontò che era tornata in Italia da sei mesi, aveva trovato una signora in cerca di badante; i figli si erano ormai laureati a Kiev; la zia Stefania lavorava sempre dalla stessa signora e – Io guarita, ora. 
Si, è vero l’ultima volta l’aveva incontrata in ospedale. Un corridoio diviso da tramezzi e accanto a lei un altro letto. Maria continuò a dare informazioni più o meno dettagliate sulla sua salute, sugli ultimi medicamenti e la recente scoperta di un chirurgo ucraino di cui avevano parlato tutti i giornali. Irene ascoltava a metà, cercando di sorridere comprensiva, ma il suo cervello si rifiutava di essere gentile e di stare in quella sala d’attesa. Le sue gambe si erano irrigidite, come pronte a scattare, in cerca di una possibilità di fuga. Discreta, ma pur sempre una fuga. 
Quando, allora, Maria le aveva telefonato per dirle che era stata ricoverata per accertamenti e che molto probabilmente avrebbe dovuto subire una operazione, Irene aveva sentito subito l’impulso di starle vicina. Così sola, lontana dalla famiglia, ma già per strada, camminando velocemente per raggiungere il vicino ospedale, se ne era pentita. Faceva caldo, nonostante fosse appena metà maggio, e ............ [...]   (CONTINUA)