4.
COCCINIGLIA
Quando
la polizia arrivò trovò le tre donne immobili come statue di sale. La più
grande delle due giovani fu la prima a riscuotersi e parlare. L’altra cominciò
a guaire, poi a contorcersi a terra e a lanciare lunghi urli ripetuti. I vicini,
accorsi all’arrivo delle due figlie nell’appartamento del quarto piano, si
erano sistemati poco lontano dal letto, ma dall’ altra parte rispetto alle tre
donne, come figurine di un presepe, col capo chino e, se ce lo avessero avuto,
col cappello in mano. La madre non si mosse. Era come arrotolata su se stessa;
con gli occhi sbarrati e freddi. In mano
stringeva un’incongrua bomboletta di metallo.
La
stanza, nella penombra di una luce filtrata dalle serrande ancora semiabbassate,
appariva con quel tanto di familiare disordine che si trova al risveglio di
persone che a lungo hanno vissuto insieme. L’aria era calda e nonostante i
vetri fossero sfessurati c’era ancora un sapore di sonno, sudore e vestiti
tolti in fretta. Su tutto però si era posato quell’odore acre che il
commissario Fabbri non tardò a riconoscere: GAYGAN 22 . Era quello stesso che
lui usava ormai da due stagioni per contrastare quelle maledettissime
cocciniglie che si erano impadronite del suo terrazzino spesso dimenticato.
Finchè
Luisa era rimasta a vivere con lui se ne era occupata lei.
Luisa.
Lui aveva creduto che con lei sarebbe durata per sempre. D’altra parte ogni
volta e ogni cosa gli era sembrato che potesse durare per sempre. In polizia
c’era arrivato tardi, dopo anni di lavoro nello studio dall’avvocato Sartori. Alla
fine del’Università, non era più tornato a Penne dai suoi ed era rimasto a Roma,
dapprima in quella stanza arredata, odorosa di gatti, dalle parti di Piazza
Bologna, poi a Prati, in un bilocale con terrazzino, fortunosamente trovato
grazie alle amicizie del vecchio Sartori. C’era andato a vivere insieme a Luisa che
allora ancora lavorava come segretaria dell’avvocato.
L’aveva
amata come un disperato. Anche lei dopo un iniziale momento di diffidenza si
era fatta prendere da questa storia e si erano dunque amati, desiderati per
almeno dieci anni ma sempre con l’ansia di non voler soffrire. Ognuno dei due
si era tenuto una specie di via di fuga, un gioco segreto scaramantico che
permettesse di non lasciarsi andare fino in fondo. [...]
Intanto
era arrivato il medico per constatare il decesso dell’uomo rannicchiato sul
letto, con il volto butterato e gli occhi spalancati dallo stupore. Fu una cosa
piuttosto rapida. Il cuore. L’antiparassitario aveva forse accelerato un
processo già in atto.
La
madre volle restar sola con il commissario ed allora cominciò a parlare.
Lentamente, per poi diventar sempre più concitata, ma abbassando, al tempo stesso, il tono della
voce fino a farlo diventare un sussurro. Fabbri seduto al tavolino della cucina
con la donna accanto si piegava per cogliere quelle parole urlate a bassa voce.
Erano un’accusa e una confessione. [...]
La donna continuò a raccontare, in un sussurro, che negli ultimi tempi non era più
uscita di casa, e faticava a muoversi persino in quelle quattro stanze. Fabbri
le si accostò ancora di più per udire le sue parole. E il sussurro riprese.
Quella mattina, - doveva essere il giorno in cui si
era accorta che erano spuntati gli alchechengi e c’erano le cocciniglie sul
rincosperma - lo aveva colto sul fatto. Semisdraiato a letto, nella
semioscurità della camera con le serrande ancora abbassate... [...]
(CONTINUA)
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