Sono nata in
un paese umbro, forse l’unico così immodificabilmente brutto in tutta la regione: Tarnasco. Stando alle cronache familiari che miravano a nobilitarlo
in qualche modo, Tarnasco doveva essere all’origine una stazione di posta per il cambio dei cavalli tra Perugia e
Città della Penna, diventato poi col
tempo mercato di animali e alimentari per i paesini, gli agglomerati e la
campagna attorno. Sono nata quando ancora i contadini erano tutti comunisti,
almeno in quella zona, e la povera parrocchia di Tarnasco era frequentata ogni
anno da missionari che tentavano di diffondere la parola giusta. Senza grande
successo. Questo negli anni cinquanta. Poi la situazione era cambiata, un po’
come in tutta Italia. La gente mangiò di più, tutti riuscirono ad avere almeno
un paio di scarpe e ci fu un tempo per l’anima e la religione anche lì. Arrivò
a un certo punto anche un parroco più volitivo, quello che – qualcuno dei vecchi paesani ancora lo ricorda- quello,
dunque, che insegnava il catechismo a suon di gnocchini in testa ed era perfino riuscito a far di mio cugino Gianni
un chierichetto.
Don Giuseppe
era un omone con i capelli grigio-gialli incolti, con la lunga tonaca nera
sempre impolverata e un tocco in testa. Avevo quattro o cinque anni allora e faccio
fatica a ricordare Gianni nel pieno
delle sue funzioni di chierichetto perché, anche in quel periodo, proprio non
riuscivo a crederci che potesse esserlo o potessero cercare di farcelo
diventare.
Mio cugino,
più grande di me di cinque anni, era già una vera teppa a quei tempi. Pelle
scura, capelli corti e ricci, gambe storte da bambino, ma già fumava di nascosto.
Gianni sapeva maneggiare con disinvoltura lo sterzo del camioncino, a motore
spento, quando era parcheggiato in magazzino tra pile di piatti e pentole da
vendere, e mi portava con lui durante le scorribande
con gli altri maschi della sua età, sui greppi
incolti dietro casa. Loro facevano la guerra e io aspettavo sotto un albero
enorme, dentro una buca di terra fine lì accanto, raccogliendo le ghiande per
cucirle insieme con il filo da imbastire e farne collane. Si tornava a casa per
la merenda del pomeriggio, sporchi e affamati al richiamo: “ Gianninooooooo!
Tornaaaa! Tornatee! Ve dovete custodì.”
Questo del custodire era un rituale fantastico
nella prima parte, noioso e talvolta doloroso nella seconda. Voleva dire
prendersi cura di sé dopo le corse scalmanate e libere, cedere, cioè, e di
buon grado, al dovere di tornare nella società
civile per esserne accettati e ciò
poteva avvenire soltanto offrendo un’immagine di sé linda e pulita e
soprattutto senza confusione o mescolanze di sessi.
Ci
spogliavano, e rimasti in mutande, ci mettevano dentro la vasca-lavatoio di
cemento fuori in terrazzo. Ci insaponavano
viso, orecchie, mani, braccia, piedi e ginocchia con sapone da bucato.
Noi ridevamo e ci schizzavamo provocando rimbrotti, minacce e tirate di capelli.
Poi ci separavano e le mie abluzioni continuavano in bagno; in camera mi
mettevano la biancheria pulita, mi facevano indossare un abitino da bimba, infilare i calzini e i sandali bianchi con gli
occhietti. Si finiva con l’acconciatura della chioma: trecce o coda o codini
che fossero mi tiravano sempre i capelli mentre io mi muovevo qua e là. Qualche
anno dopo avrei tentato di fulminare mia madre durante questa operazione
infilando il mio cerchietto di metallo per i capelli dentro una presa a poca
distanza dal luogo del mio martirio quotidiano.
Dopo esserci
custoditi, il sodalizio con Gianni sarebbe stato interrotto almeno fino al
mattino dopo. Anche la merenda era solitaria e separata. La mia, consumata
svogliatamente perché dovevo prestare attenzione a non sporcare il vestito
appena messo, consisteva di fette di pane senza sale bagnate con acqua e vino e
spolverate di zucchero, o imbevute di olio e spruzzate di sale( massima allerta
e attenzione), o spalmate di marmellate di mela cotogna che non amavo, o accompagnate
da un pezzo di carroarmato Perugina.
“Perugina”. Si diceva Perugina con un certo tono di orgoglio
nella voce, come se il fatto che la fabbrica fosse a Perugia, a venti Km dal
nostro paese, e il nonno vendesse questa marca di cioccolata nel suo bar, desse
a noi un qualche diritto alla proprietà di quella azienda o all’ identificazione
con i suoi proprietari di cui si seguivano gli eventi familiari con curiosità e
affetto. (Naturalmente per almeno venti anni della mia vita ho sempre
continuato a credere che quella fosse la cioccolata migliore di tutta Italia.)
Oltre a
Gianni nella grande casa c’erano anche le due cugine Palma e Martina.
Quest’ultima era la sorella di mio cugino, di un anno più grande di lui. Quelle
due allora mi sembravano antipatiche, perché stavano sempre insieme a parlare sottovoce,
odiavano Gianni e godevano ogni volta che veniva punito dalle zie e dagli zii.
Il ché avveniva abbastanza spesso. Lui si vendicava rompendo o nascondendo o vendendo
le loro cose, spiandole e prendendole in giro. Spesso poi si picchiavano o lui
le spingeva a terra con forza. Loro urlavano e piangevano e lui veniva di nuovo
punito.
Il fatto è che lui era proprio una teppa. Riuscì a vendere
perfino l’anello di fidanzamento di mia madre: pare che lo avesse fatto per
pagare e, così, poter vedere le gambe o qualcos’altro di una donna compiacente.
Gianni rubava sempre anche la frutta dalla dispensa, gli spicci dai
comodini e
mentiva, mentiva spudoratamente. A scuola poi era una disperazione.
Si diceva che il secondo giorno di scuola della sua vita non
volesse alzarsi presto al mattino e continuasse a borbottare: “ Uffa, sempre a scola, sempre a scola!” Insomma,
un vero asino e pensare che la sua mamma, zia Nora, era considerata una
bravissima maestra, molto dotata nel disegno. Era una donna da film
neorealista, che, per andare al lavoro, partiva presto al mattino, vestita in
tuta, sulla sua motoretta, mentre, invece, la domenica amava indossare abiti molto
femminili e gioielli. Per me era un mito perché lei era l’unica tra le cognate
a lavorare fuori casa e aveva perciò il diritto talvolta di sentirsi stanca e
avere male alle gambe. Doveva anche aver studiato in una grande città e
frequentato parenti molto ammodo.
Ma quando non si
usciva per i campi, il gioco più bello con Gianni si svolgeva in camera sua,
sul tappeto al lato del letto. Questo scendiletto diventava il nostro mondo e i
pomeriggi lì sopra volavano via fino all’ora di cena, quando la stanza
diventava buia e cominciavano i richiami delle zie. Era un tappetino di stoffa a
trama fitta, con disegni geometrici beige, marroni, verde chiaro e scuro come
una mappa di Google, il nostro mondo visto dall’alto. Lì mettevamo la casetta-
salvadanaio dell’INA Casa, e altre scatole di cartone. Poi Gianni prendeva le
automobiline e i camion della sua collezione, qualche alberello finto di
plastica e le case e gli alberghi del Monopoli, e si cominciava. Lui era un
ricco signore con Ferrari che raggiungeva la sua fabbrica con i camion in
miniatura parcheggiati lì davanti, io -sua moglie- con una bellissima
fuoriserie decappottata rosa, molto americana, potevo andare a trovarlo o a
fare spesa nel paese vicino alla nostra villa. Talvolta avevo degli incidenti lungo
il percorso e lui poteva venire in mio aiuto e trainare la mia auto con un
pick-up della sua collezione. Potevano anche esserci degli inseguimenti con la
macchina della polizia, ma noi eravamo sempre troppo furbi per farci
raggiungere e multare. C’era già in questi giochi, architettati principalmente
da lui, qualcosa della sua futura visione del mondo che non avrei poi condiviso,
ma allora tutto ciò mi sembrava decisamente nobile e eccitante.
Qualche anno dopo mi propose di investire i miei risparmi
nella sua banca privata. Non c’era
nessuna banca naturalmente, ma era un modo di farsi prestare soldi visto che il
padre e la madre, scontenti del suo comportamento a scuola, gliene davano ben pochi. Mi propose dunque di
dargli i miei soldi che mi avrebbe restituito con un certo interesse dopo un
po’. Io rischiai sconsigliata da tutti,
ma lui -a dire il vero- me li restituì davvero con il guadagno, come
pattuito. Però, saggiamente, non volli rifarlo e quando, dopo molti anni, fece
qualcosa del genere con mio padre, ho
sempre pensato che così facendo avesse contribuito in modo consistente alla
rovina finanziaria della mia famiglia.
(isabnic 2009)
-CONTINUA-
AVVERTENZA: Fatti, nomi e situazioni sono forse parzialmente veri, ma anche assolutamente falsi e stravolti come ogni ricordo che si prova a raccontare, quando ti ci prende gusto a farlo e quando soprattutto ti chiedi perché dovrebbe interessare a qualcuno. Certo, ripulire la testa, riordinare i ricordi che non usi tutti i giorni, come programmi non utilizzati sul desktop, fa star meglio. E se lo scrittore sta meglio, i familiari ringraziano.
-CONTINUA?-
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