Intanto aveva raggiunto la Metro, l'odiata. Cupa e sotterranea e tuttavia non buia: non la sopportava. Quelle languide luci al neon la stranivano-straniavano: c'era solo da desiderare un cappuccio. Ma era primavera inoltrata, pseudo-caldo, niente giacche: dunque muso a terra. Tutto pur di evitare quegli sguardi socio-monchi da inferno di linea. Tanto la musica in cuffia era altissima, alle solite, e gli occhi a fissare le scarpe.
L'idea era stata pessima, era stata di Gustav. Non era la prima idea pessima che le aveva lasciato in consegna: ce n'erano state altre di bontà dubbia, numerose per giunta. La madre di lui era tedesca, di modo che doveva avere in corpo quel surplus di risorse cognitive che è proprio dei bilingui: di idee ne aveva perciò parecchie, ma ciò non implicava che fossero decenti. Quel Gustav l'aveva conosciuto a una serata, l'aveva interpellata come tanti per dirle il solito "come balli bene"/"complimenti per come balli", le solite cagate. Solo più tardi, tuttavia, avrebbe capito che la faccenda non era la solita, no. Gustav aveva i capelli biondo scuro e gli occhi nocciola e gli zigomi segnati, forse questo l'aveva convinta a dargli spago. Magari era anche stanca, e gli anfibi già pieni di fanga. Di fatto si era fermata e si erano allontanati, il tutto sotto lo sguardo complice delle Altre. Quello sguardo, peraltro, non lo sopportava, le avrebbe prese a calci, Dio mio. Ma lui l'aveva presa per mano.
Le fermate le controllava di sbieco, sul pannello illustrativo, sù in alto, mettendosi d'impegno per non incontrare occhi altrui. Certo Gustav avrebbe potuto accompagnarla, perlomeno fin sotto il Loco x, ma cacchio non aveva voluto. Il proprio lurido aspetto, lei, la sua faccia da cazzo, li aveva sempre disprezzati e avversati: in un periodo non lontano non era raro mettersi a frignare in quella stessa Metro, all'ingresso trionfante di una Bellona. Erano tante e divine, le Bellone, a quei tempi le fissava estasiata e ne succhiava con invidia ogni buon particolare: se tonde invidiava il seno, il viso florido, ben truccato, spesso la pelle liscia, le sopracciglia perfettamente tornite; se oblunghe ne ammirava le gambe, sterminate e di articolazione stretta, la pancia piatta, la schiena dritta. A quei tempi perdonava al mondo ogni cosa -di essere ignobile, sghembo, asimmetrico, ingiusto- ma mai gli perdonava che le fossero toccate -quella è grave, oibò- le gambe storte. Ma questo era stato un tempo: ora guardava a terra.
Pazzesco che proprio lei -lei, col naso lungo- si recasse ora in Loco x. Difatti era in ansia, e quel sentore classico da stomaco vuoto e testa in panne non le dava tregua. Prevedibile: era stato così da sempre, ad ogni appuntamento/esame/evento. Anche la prima volta che si era vista con Gustav, fuori dei vapori e dei fanghi della nottata del fu incontro: il secondo incontro, dunque. Anche allora, ansia in corpo, come sempre; motivazione duplice, stavolta, tuttavia. E anche ora -ammettiamolo- in parte lo faceva per Gustav. Era probabilmente immorale quel che stava per fare, totalmente fuori etica. Non avrebbe più vissuto in pace con se stessa, doveva tenerlo in conto. Poteva ancora sottrarsi, volgere spalle e in barba al Loco x, doveva considerarlo, poteva, era in tempo, doveva, avrebbe dovuto, e i brividi quasi, andarsene via...ma eccola che scendeva dal vagone. Poi la selezione attenta dell'uscita giusta: non voleva far tardi. Tutto doveva filare liscio, regolare, canonico, questo il piano.
(Emilio Smunti, 2011)
-CONTINUA-
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