Avrà avuto forse sedici o diciassette anni mio cugino Gianni quando organizzò una caccia al tesoro. Non vivevamo più in paese; nessuno della famiglia ormai perché gli zii si erano trasferiti anche loro nella città lucana piena di vento dove avrei trascorso la mia vita pre-universitaria. Mio padre e gli zii avevano investito a quel tempo un mucchio di soldi per aprire un negozio e avviare un’attività di rappresentanze e, anche se non saremmo mai riusciti a farci accettare dalla borghesia del luogo e saremmo rimasti sempre degli stranieri laggiù, il boom economico di quegli anni migliorò considerevolmente le nostre finanze e i nostri averi. Ci furono allora nuove auto, case e villette al mare, Natali ricchi di doni, viaggi e vacanze lunghe e senza tempo. La città poi non era lontana dal mare con le sue acque verdeazzurre profonde e salate, che lasciavano ghirigori bianchi sulla pelle abbronzata, né da quegli scogli aspri, pieni di ricci profumati che qualcuno mangiava lì a cavalcioni aprendoli con un coltello. Un mare ancora un po’ selvaggio, con un paio di lidi poco attrezzati e ancor meno frequentati.
Quella caccia al
tesoro, organizzata da Gianni e il cui percorso copriva l’intera area della
città e giungeva fino al mare, fu un successo:
la partecipazione fu enorme, l’organizzazione perfetta e il ricavato da
spartire tra i soci organizzatori fu sostanzioso anche se, forse, alla fine ci fu
qualche discussione. Io avevo partecipato alle riunioni organizzative, avevo
tagliato i foglietti di carta delle domande, visto i premi, collocate le
istruzioni nei posti segreti insieme a Gianni giurando silenzio eterno: la sensazione che associo al ricordo, insieme
al brivido di condividere qualcosa con
quelli più grandi di me, è quella di puro divertimento e gioia.
Lo zio, il papà di Gianni, invece, non si divertì affatto: lo
avevano convocato a scuola i professori del figlio per avvertirlo che il
ragazzo risultava assente da scuola da venti giorni e che, prima di
interrompere la frequenza alle lezioni -del resto piuttosto saltuaria- aveva
detto in risposta all’ennesimo rimprovero: - Purtroppo, professore, non potrò
più frequentare d’ora in poi, perché devo aiutare mio padre in negozio.
Lo zio aspettò il lunedì, il giorno dopo della caccia al
tesoro, e senza molti discorsi preparatori riempì Gianni di botte. Tentò anche di rimandarlo a scuola -una scuola che si
chiamava Avviamento al lavoro, ma poi si
arrese all’evidenza e Gianni cominciò davvero a lavorare con lui.
Durò poco, però: tra litigi e discussioni si scoprì che mio
cugino aveva già in mano delle rappresentanze di piccoli elettrodomestici e
materiale elettrico in diretta concorrenza con lo zio stesso. Pur continuando a
vivere a casa con i genitori Gianni, dunque, cominciò a lavorare per conto suo, usando la sua stanza come
ufficio. Con il padre le rare occasioni di comunicazione divennero praticamente
nulle.
E con il lavoro arrivò anche il tempo dell’amore. Fu in quel
periodo, infatti, che cominciò la vita amorosa di mio cugino e io potei farmi
un’idea piuttosto distorta, come più tardi avrei dovuto accertare, di quello
che regolava le storie delle persone innamorate. A Tarnasco avevo già e spesso
osservato le due cugine con i loro filarini, ascoltato le loro confidenze, partecipato
indirettamente - cioè seduta all’angolo come testimone pieno di stupore- alle
feste di poche persone con colonna sonora
all’ultimo piano della casa. Un piano che per me insieme alla cantina si
tingeva di grande mistero perché ormai disabitato da anni e con una finestrella
senza vetri che si affacciava sulle scale da cui mi pareva, salendo e con il
cuore in subbuglio, d’intravedere sempre un’ombra. Quello
che un tempo doveva essere stato forse uno studiolo, ma ormai serviva come
stenditoio durante la lunga e umidissima stagione invernale, fu la stanza che
le mie cugine decisero di risistemare. Ci si arrivava attraverso una di quelle
stanze interne chiamate camere buie che
servivano da disimpegno per accedere alle altre parti del piano. Questa, in
alto sul soffitto, aveva uno sportello che ho visto sempre chiuso e che dava
sull’abbaino. Si vociferava tra noi ragazzi che quello fosse stato luogo di
nascondiglio in tempi difficili e ora era pieno di vecchie cose, topi e vestiti
in disuso. Di fronte allo studiolo c’era la porta di quello che considero
ancora il bagno più grande che abbia mai visto. Un camerone gelido che si
affacciava sulla campagna, con una sperduta vasca da bagno di ghisa smaltata,
un ridicolo scaldabagno a colonna con la cesta della legna lì accanto, un paio
di bauli, due seggiole e i sanitari moderni di ceramica assurdamente fuori
scala. Tutto il piano -non so come o almeno è così nel mio ricordo- non aveva
alcun odore particolare, ma dava piuttosto una sensazione sulla pelle di tempo
interrotto, di voci appena zittite, porte appena chiuse. Lo studiolo ne aveva
una sgangherata e lasciata sempre aperta.
Il giradischi e i 45 giri su un mobiletto basso con la voce
di Paul Anka &co, il tavolino con qualcosa da mangiare e da bere (tutto
analcolico), le sedie addossate alle pareti, qualche barattolo come portacenere
e il pavimento di mattoni che -quello sì sapeva di polvere bagnata- e la festa delle
cugine, con l’arrivo dei primi amici, poteva cominciare. Qualche cha
cha cha di gruppo lo sapevo ballare anche io, poi di solito, però, quando
cominciavano i lenti di Neal Sedaka, venivo in qualche modo allontanata, mandata in
missione a prendere altre bibite o qualcos’altro di assolutamente inutile,
lontano da quelli che allora consideravo i loro riti segreti. Finché alla fine
preferivo rimanere a guardare zia Lucia che lavorava all’uncinetto al piano di
sotto e raccontava di sé e dello zio Gino, suo marito per brevissimo tempo,
morto in un incidente d’auto. Si erano amati segretamente per anni perché la
nonna, la volitiva e segaligna nonna Ida, non gradiva il loro eventuale
matrimonio e quando questo alla fine fu celebrato, la fatalità negò per sempre
alla zia la possibilità di vivere il suo amore. Anche delle altre zie e di mia madre avevo
voracemente ascoltato le storie d’amore, i primi sussulti e gli incontri
pudicamente evocati, fino al finale trionfante del loro matrimonio , che a dire
il vero sembrava -almeno ai miei occhi- procedere in modo piuttosto noioso.
Erano rimasti a Tarnasco tutti i luoghi più amati, quelli che
ritrovavo ogni anno in quel mese che passavo lì prima dell’inizio della scuola.
Lì mi sembrò, anche e per la prima volta, di sentir battere il cuore più
velocemente del solito per un ragazzino più alto di me e dagli occhi verdi; e
fu lì e allora che sentii nascere una profonda rabbia nei confronti di mia
madre che mi obbligava ancora a mettermi degli infamanti calzettoni al posto
delle calze lunghe.
E Gianni? Quella di Gianni non fu una storia classica di
innamoramento, secondo i tempi e i modi che avevo potuto osservare in quegli
anni, ma una deflagrazione preceduta da uno sbandamento. Fino ad allora lo
avevo sempre visto e sentito impicciare
con i suoi amici a proposito di automobili, motori da riparare, o al massimo gite
in massa a vedere l’arrivo delle milanesi
-ragazze del nord o straniere- al nuovo Villaggio Vacanze Troubadour, appena
costruito sulla costa, per la stagione
balneare. Non so se mio cugino avesse già avuto una ragazza di cui non avevamo
saputo nulla, ma tutti sono concordi nel pensare che la bionda occhicerulea Abigail
fu il suo primo amore. Breve, perché il pomeriggio stesso del loro primo
incontro lui trovò poi quello vero: Àmor, la sorella quattordicenne della stessa Abigail. Capelli scuri e ricci,
occhi viola, questa volta. Un sorriso dolcissimo. Il suo nome, che il padre
aveva scelto per amore nei confronti della cultura classica, ora scritto a
stampatello con quattro enormi lettere di nastro adesivo rosso, campeggiava
sulle due ante dell’armadio di formica finto legno della camera di mio cugino. Era
la prima cosa che notavi , sbattendoci quasi contro, quando capitava di entrarci per svegliarlo su
incarico della zia. Tra lenzuola arrotolate intorno al corpo come un mare in
tempesta, emergevano le braccia brune come biscotti, intrecciate sotto la testa
di ricci scuri che pareva galleggiare in quel mare bianco persa ancora tra i sogni.
A questo punto di solito mi voltavo a guardare di nuovo la scritta sull’armadio
per verificare che nulla fosse cambiato e annuivo, pensando di aver capito
tutto, mentre lui si stiracchiava passando rapido dal sonno alla veglia, quasi
in modo inaspettato, pronto a riprendere le sue mille attività.
In quel periodo l’aiutai a scrivere qualche lettera in inglese, poi Gianni investì tutto quello che
aveva guadagnato fino ad allora (aveva compiuto da poco diciotto anni) e partì in
nave per l’Australia, paese dove era tornata, perché lì viveva, Àmor con la sua
famiglia, quasi deciso a rimanerci per sempre.
(isabnic2014)
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