Diario di una scrittrice (1953)
BEAT, 2011
Questa non è una recensione: è
soltanto una testimonianza di puro piacere provato nella lettura del testo, di profonda
condivisione del sentire al femminile e di sorpresa nel riconoscere in queste
pagine di diario vezzi e paure familiari a chi scrive, al di là dei tempi
storici e della serietà di impegno. Una sorta di buco della serratura in cui
osservare i modi e il groviglio di sentimenti della creazione artistica. Pagine
di consigli (“[…] prima di togliere qualche cosa da un libro, bisogna metterci
tutto.”, pag. 50), riflessioni sui libri letti e preoccupazioni quoti diane dell’artista.
Nelle prime pagine del diario del 1919, eccola lamentarsi di “Un’ora di scrittura al giorno […]” (pag. 18), per
poi, da brava borghese, calcolare le ore non sfruttate da poter usare nei
giorni successivi, o il tempo impiegato a scrivere quelle pagine di diario (“Un
tessuto a maglie lente , ma non sciatto; tanto elastico da contenere qualunque
cosa mi venga in mente,[…].”, pag.25), nella decisa convinzione che l’abitudine
di scrivere giornalmente sia un buon esercizio. “Poco importano le cilecche e
le papere”, pag.25)! O quando in viaggio, i tempi della vita tolgono spazio
alla scrittura (“E’ facile ripromettersi di prendere appunti, ma scrivere è un’arte
difficilissima. Bisogna scegliere continuamente; e ho troppo sonno, e perciò mi
faccio scorrere la sabbia tra le dita. Scrivere non è per niente un’arte
facile; ma il pensiero evapora, sfugge qua e là.[…]”, pag.233).
Che buffo leggere di Virginia felice di
guadagnare dei soldi insperati, desiderosa di abiti nuovi, divertita dai
pettegolezzi, così dolorosamente insicura del suo lavoro, e che alterna fasi di
pura depressione, sconforto o irritazione per un giudizio appena tiepido, a
fasi di infantile esuberanza per un commento favorevole. E quelle piccole
fissazioni come i quaderni sui quali scriveva il diario e i suoi lavori,
rivisti e corretti con dolore e fatica in tempi lunghissimi. Così tremendamente
umana nei suoi temuti insuccessi, nell’aspettare l’approvazione del marito-
primo e speciale lettore di tutti i suoi lavori, nel suo rimpianto per la
scomparsa di tanti amici, nelle sue passeggiate urbane e campestri, nel suo
orrore di quelle ultime pagine fatte di rovine, polvere, scheletri di case
danneggiate dai bombardamenti, libri perduti, incessante e ossessivo rumore di
incursioni aeree e esplosioni.
E la vita, con le sue urgenze
banali, che torna prepotentemente nelle
righe dell’ultima pagina dei quaderni pubblicati. Le scrisse solo pochi giorni
prima di togliersi la vita: “[…] No: non mi propongo nessuna introspezione.
Noto la frase di Henry James: osserva senza tregua. Osserva l’avvicinarsi della
vecchiaia. Osserva la voracità. Osserva il tuo stesso avvilimento. Con questo
mezzo diventa utile. […] Tenersi occupati è essenziale. E ora, con un certo
piacere, mi accorgo che sono le sette e che devo preparare la cena. Merluzzo e
salsicce. Credo sia vero che, scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni
del merluzzo e delle salsicce.” (pagg. 414-415)
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