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venerdì 30 settembre 2016

I VICERÉ di Federico De Roberto

I VICERÉ ( 1894)

Quel “piacere artistico tra le scapole” di cui parla Nabokov  a proposito di  Casa Desolata di Ch.Dickens, nelle sue Lezioni di letteratura[1], l’ho provato qualche tempo fa leggendo I Viceré di De Roberto(1861-1926). Ho sentito quel fremito lì dietro, in alto sulla schiena. Chiaro e ineludibile. Tanto che, quando ho finito il libro, ne ho provato una sorta di dolore, di sofferenza da astinenza che non mi permetteva di leggere altro. Avevo divorato tutte quelle pagine, come ai tempi delle letture bulimiche adolescenziali. Proprio io che non amo i romanzoni. Eppure l’avevo cominciato quasi per dovere, certa di trovarmi davanti a qualcosa di vecchiotto, un soprammobile di famiglia tenuto in salotto, bello ma importante soprattutto per parlarci sopra, e d’altro. E mentre lo leggevo mi chiedevo quali dovevano essere state le letture del giovane De Roberto traduttore infaticabile dal francese e più tardi bibliotecario a Catania, dopo la delusione  per la tiepida accoglienza dei suoi scritti  e dopo il ritorno a casa accanto alla vecchia madre che accudirà fino alla fine. In quei momenti di solitudine, con tutti quei libri intorno a sé, quali erano le pagine che l’avevano colpito di più e sulle quali tornava più spesso? Gli indimenticabili personaggi de I Vicerè - un nodo ripugnante di personaggi in cui neanche i puri o gli idealisti si salvano- sembrano echeggiare molti vecchi amici di letteratura. Penso al Babbeo, un condensato di Bouvard&Pecuchet estremista; all’infelice contessa Matilde che ricorda le atmosfere di Una vita di Maupassant; a don Eugenio Uzeda dalla lingua più che infiorettata e parente povero alla maniera del dickensiano Twemlow de Il nostro comune amico, ma decisamente meno mite; a donna Ferdinanda balzacchiana  e alle sue maligne storpiature posh dei cognomi dei borghesucci o dei nobili meno nobili degli Uzeda con cui entra sdegnosamente in contatto (ancora Dickens e le variazioni irriverenti del cognome Boffin da parte della sorella minore di Bella nel romanzo appena citato); a don Blasco e al fratello domenicano (Stendhal?); o al sapore shakespeariano della presunta uccisione della prima moglie da parte del principe suo marito, divenuta certezza nel figlio Consalvo – un Amleto falsamente “rottamatore” e corrotto come tutti quelli che lo hanno preceduto. E il gioco potrebbe continuare.


 I Viceré, Federico De Roberto, 1990 Giulio Einaudi, Torino
Scritti introd. di Luigi Baldacci e Leonardo Sciascia
Ebook ISBN 9788858418192


(isabnic 2016)


[1] V.Nabokov, Lezioni di letteratura, a cura di Fredson Bowers, trad.di Ettore capriolo, Garzanti, Milano 1982.

giovedì 17 marzo 2016

BENZINE di Gino Pitaro, di isabnic


La storia di Benzine di Gino Pitaro si snoda attraverso quindici capitoli dai titoli geniali che giocano con la parola fuoco (Fuochi fatui, Aniene Burning, Tra due fuochi , Fuoco Amico, etc). D’ altronde, il protagonista, Luigi, è da subito accostato al draghetto verde sputafuoco Grisù, eroe ecologico-progressista dei cartoni animati Tv del 1975 (probabile anno di nascita anche di Luigi ). E anche a lui, come a Grisù -in contrasto generazionale e di scelte con la famiglia d’origine e con il mondo-  ogni tanto sfugge una fiammata.  Ma sono per lo più fiammate contro il maleducato di turno o vampate di gioia, di positiva accettazione della vita, perché Luigi, eroe sensibile, spiritoso, curioso, generoso e empatico, preferisce stare (criticamente) al margine e lascia ad altri il ruolo di impugnare il megafono e incitare alla rivolta. Cerca, piuttosto, di portare avanti il suo dottorato di ricerca tra  impegno politico (moderato), lavori e lavoretti “a gettone”, uscite tra amici, desideri irrisolti d’amore e chiacchierate con le amiche, sempre con uno sguardo di divertita comprensione nei confronti del mondo che attraversa. Un mondo -il suo- affollato di giovani confusi, barboni, accattoni, zingari (che “ pe’ quarcuno è solo monnezza, p’altri è ‘na risorsa”), immigrati, prostitute,  delinquenti o micro criminali da strapazzo. Se in passato ha distribuito  volantini per una ditta, ora Luigi lavora in un call center, “in ascesa –dunque- sulla scala sociale del precariato giovanile demotivato”.
Anti-eroe fuorisede e pendolare,  sotto la guida morale dei suoi santi protettori, Tondelli e Pasolini, e al ritmo dei brani Juno Reactor o dei Metallica,  Luigi si muove tra università, Gazometro, Ostia, Prenestino e zone della periferia nordest della metropoli, aree di sospensione della legalità e di commistione con l’illecito, tra stabilimenti dismessi, bar e sale gioco, hotel congressuali, aziende e centri commerciali. “Anche questa è Roma e io la amo. – confesserà- E amo il mio quotidiano western tiburtino.” E tra pc, telefoni,  social e sms, auricolari con musica pulsante alle orecchie, connessioni inaffidabili, controinformazione da Web, Luigi e i suoi amici cazzeggiano e filosofeggiano parlando di politica, musica, calcio,  cinema,  lavoro che-non c’è, donne, soldi e sogni.
Luigi, come un cavaliere errante dalla periferia al centro e ritorno, a bordo di treni, metro, linee speciali e autobus  fatiscenti e mai in orario,  vive la sua esistenza marginale di gioiosa precarietà fino a quando non si troverà in mezzo a una turpe storia. Qualcuno che lui conosce scompare all’ improvviso, e forse non l’ha fatto di propria volontà …  E tra scoperte casuali, intuizioni brillanti e la testardaggine di chi è nel giusto,  allora sì che saprà cosa dire al megafono!
In assoluto, le dinamiche e gli scambi verbali nel call center,  le  descrizioni non scontate delle periferie multietniche e dei loro segreti (un vero e proprio godibile Baedeker delle aree periferiche romane!)  e le pagine sulle strategie di sopravvivenza dell’utente pendolare del servizio trasporti urbano e extraurbano sono quelle che ho più apprezzato, oltre alla capacità dell’Autore di  modulare  e mettere efficacemente  a contrasto i vari linguaggi (inglesismi tecnici, romanesco da fuorisede e slang giovanile). Il tono è sempre ironico e divertente, pur trattando talvolta, e con intelligenza, argomenti e problemi sociali di toccante attualità.
Gino Pitaro (1970), redattore, articolista free-lance e documentarista indipendente, vive a  Roma. Ha pubblicato nel 2011 l’opera undergound I giorni dei giovani leoni (Arduino Sacco Editore), e nel 2013 Babelfish, racconti dell’Era dell’ Acquario (Edizioni Ensemble), una raccolta di sei storie rappresentative del “nomadismo esistenziale” contemporaneo. Ancora con l’Ensemble ha pubblicato Benzine nel 2015.
(isabnic2016)

Gino Pitaro, BENZINE, 2015 Edizioni Ensemble, Roma
Edizione digitale 2015 (Kobo EPUB 2,0 MB)

ISBN 978-88-6881-115-0

mercoledì 26 febbraio 2014

16 ottobre 1943 di G.Debenedetti

1.       Giacomo de Benedetti, 16 ottobre 1943, Sellerio 1993 (prefazione di Alberto  Moravia e una nota di Natalia Ginzburg)  
                                                                        
Mi è capitato tra le mani l’altro mese. (Brutta prefazione di Moravia, come imbarazzato o troppo addolorato a rileggerlo oggi). Due racconti scritti da Giacomo Debenedetti sotto l'urgenza del dolore nel novembre 1944. Qualche volta la sua scrittura  è aspra, quasi infastidita; altre volte si colora di un lirismo inaspettato. Nel primo racconto ci sono immagini che rimangono impresse indelebilmente  nella memoria (doveva essere successo anche alla Morante che le inserisce nella sua Storia rielaborandole). E allora, ecco la comparsa di Celeste la pazza, che arriva al ghetto all’imbrunire. Una figurina  nera e scarmigliata, -un misto tra Verga e tragedia greca- che lancia un allarme inascoltato. Poi il vagone delle casse con l’oro, quei 50Kg richiesti da Kappler, che passa attraverso la città da villa Wolkosky a via Tasso, e la scenetta della trattativa con il crudele Schultz. Fine settembre e la razzia degli Archivi, con la descrizione del paleografo che “palpa”  -come un corpo desiderato da possedere- i papiri e gli incunaboli nella Biblioteca del Collegio Rabbinico, sfoglia con voluttà codici, manoscritti e rare edizioni.
Togliere gli averi, togliere la memoria, demolire i punti di riferimento, annullare qualsiasi forma di resistenza dovevano essere state le indicazioni di regia  quei giorni prima del 16 ottobre 1943. Poi il racconto concitato e rumoroso di quella mattina. Gente buttata giù dal letto per gli spari e le urla, la paura, il non sapere e non capire. Lo stupore di quello che era accaduto e continuava ad avvenire, lo smarrimento e la rassegnazione narrati attraverso la tazzina che trema tra le mani di un ragazzo che si chiede: “Che feranno di noi?”. Fagotti, valigette, pastrani infilati alla meglio. Poi, il  colore dei carri e dei tendoni che li coprivano, un color melma che diventava nero agli occhi di chi non aveva più speranza - indimenticabile per il lettore. E ancora il suono della lingua ebraica, gergo di complicità.
Quasi concitate le ultime pagine: con quel carro bestiame, intriso di pianto e che risuona di lamenti, mentre attende di partire su quel binario morto della Stazione Tiburtina, la fermata a Orte e gli spari contro chi tenta la fuga, l’abbandono del cadavere di una povera vecchia a Chiusi, l'arrivo a Firenze e il fine turno del macchinista Quirino Zazza e, infine, lo sfocato scomparire di quel vagone con i suoi viaggiatori senza ritorno.

Il secondo racconto intitolato Otto ebrei, sicuramente molto incisivo come documento e un monito a non trattare gli ebrei come diversi, ci lascia meno immagini, ma ci invita a riflettere sul rispetto dovuto a qualsiasi diversità.
(gogo2014)

sabato 6 aprile 2013

ALDO PIROMALLI o la generosità dell'artista.

24 Marzo 2013
Bella Torpignattara! Tarda mattinata di una domenica di sole d'inizio primavera.
 La Casa del Popolo è animata di famiglie e bambini, al bancone del bar si beve birra e da qualche parte ci si diverte a parlare di filosofia. Le pareti della grande sala delle riunioni, ancora impregnate di vecchie discussioni e progetti, sono oggi tappezzate di manifesti e disegni, e i banchetti accostati lì sono coperti di libri allineati. Odore di carta e stampa. Si chiama "Liberiamoci" questa rassegna dell'editoria indipendente, una fiera della piccolissima editoria, un segnale contro la concentrazione dei "grandi" e per la condivisione dei saperi.
Nel pomeriggio ci sarà la presentazione di "Se io sono la lingua" a cura di Giulia Girardello e Mattia Pellegrini, su Aldo Piromalli e la scrittura ( ir- ritata) in esilio.Peccato! non potrò rimanere, ma a casa ho già il libro e al banchetto della Cooperativa Edizioni SENSIBILI ALLE FOGLIE, che ha pubblicato il libro su Piromalli, prendiamo, incuriositi da quello che ci racconta uno degli autori, "Nel bosco di Bistorco"  di Renato Curcio, Stefano Petrelli e Nicola Valentino, alla sua quarta ristampa dal 1990. Gli autori sono anche soci fondatori della Cooperativa e nel libro, un intreccio di riflessioni e materiale documentario in frammenti, si interrogano sull'esperienza dell'internamento, sulla capacità del recluso a sopravvivere e a immaginare un altrove. 

6 Aprile 2013
"Se io sono la lingua", a cura di Giulia Girardengo e Mattia Pellegrini, è un libro nato in collaborazione con il Museo dell'Arte Contemporanea in Esilio (www.museoinesilio.blogspot.com/) e contiene un testo dell'artista spagnola Dora Garcìa, responsabile del progetto di performance e archivio "The Inadequate/Lo Inadecuado" alla 54ma Biennale di Venezia (2011) presso il Padiglione spagnolo. Con il suo progetto L'artista "voleva esplorare l'idea di inadeguatezza (esistenziale , sociale e storica) come una posizione artistica archetipica" e il Museo in Esilio è stato l'ospite naturale dello spazio a lei affidato. 
Aldo Piromalli, artista romano di origine, in esilio per scelta, con esperienze di carcere e manicomio, è uno degli artisti del Museo (nomade) in esilio e anche uno degli Inadecuados del Padiglione Spagnolo a Venezia, anzi -a detta di Dora Garcia- il più singolare tra questi perché ha unito nella sua vita e nelle sue opere i due progetti dell'Esilio e della Inadeguatezza. 
Dagli anni '70, Piromalli ha scrittoe inviato continuamente  -a un museo del Veneto- lettere da Amsterdam, chiuse in  buste di varie misure, sigillate con il nastro adesivo e piene di informazioni sul contenuto (disegni, dipinti su legno, poemi e altri scritti in lingue diverse, collages, lettere). Inizialmente, queste buste venivano aperte, poi sono rimaste chiuse e lasciate da una parte. D'altronde si è poi capito che Aldo Piromalli non ha mai aspettato risposte. Il suo gesto compulsivo era un dono, una voce che non aspetta echi di ritorno, soltanto un modo continuare a narrare la nuova realtà fluttuante del suo altrove. Non vuole risposte o contatti. Non vuol farsi trovare. Per questo si è chiamato fuori.  
                                   (A.P.-24/03/12)
                                  "Devi poter uscire
                                   per poter entrare
                                   se non esci mai
                                   non entri più"

(isabnic2013)

lunedì 4 giugno 2012

VOLTAIRE, CONAN DOYLE, SITI : tre libri letti da gogo


“Uno scrittore scrive, uno scrittore legge. Leggo continuamente, per la gioia, per la curiosità,per la fame che mi ispira, per il desiderio di capire come ha scritto o sta scrivendo qualcun altro.”
 Elizabeth Strout, su La Repubblica, 20 maggio 2012; traduzione di Silvia Castoldi.


·         Voltaire
L’ingenuo
I libri del Sole 24ore, 2012; Garzanti, Milano 2000, trad. di Maria Moneti
Delizioso! Le contraddizioni della società e delle religione ai tempi di Luigi XIV, colti attraverso gli occhi, il cuore e la mente di un candido selvaggio.

·         Arthur Conan Doyle
Falsa partenza e altri racconti
Sullo sfondo dell’Inghilterra vittoriana, storie ironiche e brillanti su medici e pazienti. Gradevole e inaspettato.

       
          ·         Walter Siti
                Il contagio
Oscar Mondadori, 2008
Walter Siti , l’ho scoperto solo ora. Mi aveva incuriosito come persona, così diversa da tutta la gente di mondo (intellettuale) riunita una certa sera di qualche anno fa per la presentazione di un libro di un altro scrittore.
Per curiosità, ho allora comprato questo libro senza saperne nulla, trovandolo inizialmente insopportabile, lasciandolo dopo poche pagine.  Poi l’ho ricominciato e l’ho finito, amandolo.
Un condominio di borgata, criminale, volgare, violento, corrotto, perduto, ma terribilmente umano e assurdamente innocente.  Ormai qui, non molto lontano da noi.

mercoledì 18 aprile 2012

VIRGINIA WOOLF, il merluzzo e le salsicce

Virginia Woolf
Diario di una scrittrice (1953)
BEAT, 2011

Questa non è una recensione: è soltanto una testimonianza di puro piacere provato nella lettura del testo, di profonda condivisione del sentire al femminile e di sorpresa nel riconoscere in queste pagine di diario vezzi e paure familiari a chi scrive, al di là dei tempi storici e della serietà di impegno. Una sorta di buco della serratura in cui osservare i modi e il groviglio di sentimenti della creazione artistica. Pagine di consigli (“[…] prima di togliere qualche cosa da un libro, bisogna metterci tutto.”, pag. 50), riflessioni sui libri letti e preoccupazioni quoti diane dell’artista. Nelle prime pagine del diario del 1919, eccola lamentarsi di  “Un’ora di scrittura al giorno […]” (pag. 18),  per poi, da brava borghese, calcolare le ore non sfruttate da poter usare nei giorni successivi, o il tempo impiegato a scrivere quelle pagine di diario (“Un tessuto a maglie lente , ma non sciatto; tanto elastico da contenere qualunque cosa mi venga in mente,[…].”, pag.25), nella decisa convinzione che l’abitudine di scrivere giornalmente sia un buon esercizio. “Poco importano le cilecche e le papere”, pag.25)! O quando in viaggio, i tempi della vita tolgono spazio alla scrittura (“E’ facile ripromettersi di prendere appunti, ma scrivere è un’arte difficilissima. Bisogna scegliere continuamente; e ho troppo sonno, e perciò mi faccio scorrere la sabbia tra le dita. Scrivere non è per niente un’arte facile; ma il pensiero evapora, sfugge qua e là.[…]”, pag.233).
 Che buffo leggere di Virginia felice di guadagnare dei soldi insperati, desiderosa di abiti nuovi, divertita dai pettegolezzi, così dolorosamente insicura del suo lavoro, e che alterna fasi di pura depressione, sconforto o irritazione per un giudizio appena tiepido, a fasi di infantile esuberanza per un commento favorevole. E quelle piccole fissazioni come i quaderni sui quali scriveva il diario e i suoi lavori, rivisti e corretti con dolore e fatica in tempi lunghissimi. Così tremendamente umana nei suoi temuti insuccessi, nell’aspettare l’approvazione del marito- primo e speciale lettore di tutti i suoi lavori, nel suo rimpianto per la scomparsa di tanti amici, nelle sue passeggiate urbane e campestri, nel suo orrore di quelle ultime pagine fatte di rovine, polvere, scheletri di case danneggiate dai bombardamenti, libri perduti, incessante e ossessivo rumore di incursioni aeree e esplosioni.
E la vita, con le sue urgenze banali,  che torna prepotentemente nelle righe dell’ultima pagina dei quaderni pubblicati. Le scrisse solo pochi giorni prima di togliersi la vita: “[…] No: non mi propongo nessuna introspezione. Noto la frase di Henry James: osserva senza tregua. Osserva l’avvicinarsi della vecchiaia. Osserva la voracità. Osserva il tuo stesso avvilimento. Con questo mezzo diventa utile. […] Tenersi occupati è essenziale. E ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e che devo preparare la cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che, scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce.” (pagg. 414-415) 
·
      

lunedì 26 marzo 2012

JHUMPA LAHIRI (un racconto del 2008)


Jhumpa Lahiri
Solo bontà(2008)
Racconti d’autore, Il Sole 24 ore, 2011

Gli ingredienti non sono male: ‘storia di integrazione e di conflitti domestici tra il Massachusetts e Londra, il mito del successo e il demone del fallimento’, egoismi e ricerca di felicità di un fratello e di una sorella bengalesi. Ma la storia procede in modo un po’ legnoso, e il finale è come un palloncino che sfugge a zig-zag per il cielo. Ti fa rabbia e non ti rimane nulla. La narrazione è rigida e trattenuta. Fredda come chi ha paura di sbagliare le nuove regole.