1. Giacomo
de Benedetti, 16 ottobre 1943, Sellerio 1993 (prefazione di Alberto Moravia e una nota di Natalia Ginzburg)
Mi è capitato tra le mani l’altro
mese. (Brutta prefazione di Moravia, come imbarazzato o troppo addolorato a rileggerlo oggi). Due racconti scritti da Giacomo Debenedetti sotto l'urgenza del dolore nel novembre 1944. Qualche volta la sua scrittura è aspra, quasi infastidita; altre
volte si colora di un lirismo inaspettato. Nel primo racconto ci sono immagini che rimangono
impresse indelebilmente nella memoria
(doveva essere successo anche alla Morante che le inserisce nella sua Storia rielaborandole). E allora, ecco
la comparsa di Celeste la pazza, che arriva al ghetto all’imbrunire. Una
figurina nera e scarmigliata, -un misto tra Verga e tragedia greca- che lancia
un allarme inascoltato. Poi il vagone delle casse con l’oro, quei 50Kg
richiesti da Kappler, che passa
attraverso la città da villa Wolkosky a via Tasso, e la scenetta della
trattativa con il crudele Schultz. Fine settembre e la razzia degli Archivi,
con la descrizione del paleografo che “palpa”
-come un corpo desiderato da
possedere- i papiri e gli incunaboli nella Biblioteca del Collegio Rabbinico,
sfoglia con voluttà codici, manoscritti e rare edizioni.
Togliere gli averi, togliere la memoria, demolire i punti di riferimento, annullare qualsiasi forma di resistenza dovevano essere state le indicazioni di regia quei giorni prima del 16 ottobre 1943. Poi il racconto concitato e rumoroso di quella mattina. Gente buttata giù dal letto per gli spari e le urla, la paura, il non sapere e non capire. Lo stupore di quello che era accaduto e continuava ad avvenire, lo smarrimento e la rassegnazione narrati attraverso la tazzina che trema tra le mani di un ragazzo che si chiede: “Che feranno di noi?”. Fagotti, valigette, pastrani infilati alla meglio. Poi, il colore dei carri e dei tendoni che li coprivano, un color melma che diventava nero agli occhi di chi non aveva più speranza - indimenticabile per il lettore. E ancora il suono della lingua ebraica, gergo di complicità.
Togliere gli averi, togliere la memoria, demolire i punti di riferimento, annullare qualsiasi forma di resistenza dovevano essere state le indicazioni di regia quei giorni prima del 16 ottobre 1943. Poi il racconto concitato e rumoroso di quella mattina. Gente buttata giù dal letto per gli spari e le urla, la paura, il non sapere e non capire. Lo stupore di quello che era accaduto e continuava ad avvenire, lo smarrimento e la rassegnazione narrati attraverso la tazzina che trema tra le mani di un ragazzo che si chiede: “Che feranno di noi?”. Fagotti, valigette, pastrani infilati alla meglio. Poi, il colore dei carri e dei tendoni che li coprivano, un color melma che diventava nero agli occhi di chi non aveva più speranza - indimenticabile per il lettore. E ancora il suono della lingua ebraica, gergo di complicità.
Quasi concitate le ultime pagine: con quel carro bestiame, intriso di pianto e che risuona di lamenti, mentre attende di partire su quel
binario morto della Stazione Tiburtina, la fermata a Orte e gli spari contro chi tenta la fuga, l’abbandono del
cadavere di una povera vecchia a Chiusi, l'arrivo a Firenze e il fine turno del macchinista Quirino Zazza e, infine, lo sfocato scomparire di quel vagone con i suoi viaggiatori
senza ritorno.
Il secondo racconto intitolato Otto ebrei, sicuramente molto incisivo
come documento e un monito a non trattare gli ebrei come diversi, ci lascia
meno immagini, ma ci invita a riflettere sul rispetto dovuto a qualsiasi
diversità.
(gogo2014)
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