Gli incontri con Giacinti, però, anche
se a distanza, da quella sera in cui l’avevo riconosciuto, parvero
intensificarsi e cominciarono a sembrarmi per nulla casuali. Ricominciai a
sentire nei suoi confronti lo stesso odio di un tempo, quasi un sapore acido di
vendetta, un grumo scuro che mi premeva alle tempie. Quell’uomo che mi aveva separato da un amico, indebolito la povera gamba
sinistra per sempre, segnato dolorosamente un periodo del passato, ora avrebbe
potuto cancellarmi anche il futuro. Lui conosceva il mio vero nome, sapeva
della mia amicizia con Sandro, forse avrebbe potuto intuire dell’altro e
denunciarmi. Mancavano solo pochi mesi e sarei potuto tornare da Marìa Concepciòn
e da mio figlio. Fino ad allora avevo immaginato che nessuno
avrebbe potuto sospettare nulla, che avrei potuto mettere a tacere per sempre tutti
i fantasmi che continuavano ancora a tormentarmi. Avevo pensato a tutto, così
che noi avremmo avuto di che vivere e allo stesso tempo avrei potuto aiutare,
in forma anonima, anche il figlio di Sandro. Se solo… Desiderai profondamente
la morte di Giacinti, la sua scomparsa definitiva dalla mia vita, così che, alla fine, decisi
di recuperare e tener pronta la mia vecchia pistola. Quella Walther P38 che da
tempo non avevo più impugnato e che, da quando mi ero trasferito lì, tenevo
nascosta in balcone. Mi ero illuso da tempo che avrei potuto non toccarla più
per tutto il resto della vita. Ma pareva che non potesse andare così.
Era sicuramente un fine settimana di gennaio, dunque appena un paio di
settimane prima che il cadavere di Giacinti sarebbe stato ritrovato vicino
all’archivio. Ricordo che le piante in balcone erano ancora coperte dai teli di
protezione, quando decisi di recuperare quel pacchetto di plastica, ingrigito e
rinforzato dal nastro adesivo. La mia memoria dolorosa, il mio senso di colpa
straziante. Potevo stringerlo ancora tra le mani. No, non si era disciolto e
non era nemmeno defluito via con l’acqua di innaffiatura. Era ancora lì dove
l’avevo nascosto, sotto strati di carta, stoffa e plastica sporca del terriccio,
sotto il quale avevo sepolto anche i tuberi di tulipano, in attesa della loro
fioritura primaverile. Risistemai velocemente il vaso e posai sul tavolo del
soggiorno quel lugubre pacchetto per aprirlo. Lo stesso odore di terra, come
allora. Sotto gli strati di copertura che da anni lo avvolgevano, riapparve
quel fusto in acciaio brunito. Estate del ’77. Non portavo ancora questi
occhiali falsi, mi chiamavo ancora Mauro Lenzi, nome di battaglia “Angelo”. Prime ore
dell’alba, luce incerta. Insieme ad altri tre, a volto scoperto e a bordo di un
auto rubata, in quella strada ancora poco frequentata tra l’autostrada e il
litorale, come avrei potuto mai dimenticare?
La Walther P38 era arrivata alla fine
dell’addestramento, quando io e Sandro, ormai “compagno Michele”, ci ritrovammo, dopo anni in cui ci eravamo
persi di vista, militanti in clandestinità nella stessa organizzazione e poi,
infine, in un paio di azioni di autofinanziamento. Qualcosa andò male, però, l’ultima
volta. Non ci doveva essere quella pattuglia di carabinieri in attesa, a
quell’ora, a quell’incrocio. Io sarei diventato, sui giornali del giorno dopo,
il famoso quarto uomo del commando, famoso perché non identificato, sfuggito
alle forze dell’ordine; una sagoma bianca, senza nome e, dopo più di
trent’anni, ancora latitante nel condominio di via Gianturco. Se Manlio Giacinti mi aveva davvero riconosciuto, come
sospettavo ogni giorno di più, sarebbe stato facile per lui ricostruire tutto
il resto, tenermi in pugno, denunciarmi, ma –devo confessare- non avrei mai
immaginato di vedere così presto il suo corpo riverso a terra senza vita.
Erano le sette e un quarto di quel mercoledì di metà febbraio quando
capii che non avrebbe potuto più farmi male. Tra breve Franco, il portiere, ne avrebbe
scoperto il cadavere. Maledetto! Proprio
qui dovevo rincontrarti! Presto -
mi dissi- prima che arrivi qualcuno e
forse in archivio non c’è nessuno. Devo salire in macchina e andarmene subito
al lavoro, come sempre, come se nulla fosse successo.
Mi chiedo ancora come riuscii a guidare fino a
lì. La pioggia leggera che avevo incontrato uscendo dal garage era diventata
man mano che lasciavo la città uno scroscio insistente e senza speranza, che
cancellava il mondo al di là del nastro d’asfalto che percorrevo e la linea
bianca, al centro della carreggiata, a tratti scompariva in apnea, prima che il
braccetto del tergicristalli riuscisse a compiere il proprio lavoro di
pulitura. Anche i pensieri si accumulavano a ondate alternandosi a momenti di
vuoto. Mi venne in mente che l’avevo incontrato la sera prima mentre stava
parlando con l’avvocato del quarto piano. Sembrava che avessi interrotto una
conversazione di una certa importanza e ancora una volta mi ero sentito addosso
il suo sguardo, anche più determinato del solito, quasi che dicesse: - Adesso
non ho tempo. La prossima volta penserò anche a te.-
Non poteva che finire così.[...]
(isabnic 2013)
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