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mercoledì 27 novembre 2013

MICHELE ARCANGELI, primo piano -primo portone a sinistra (5)

 5. Quando arrivai al cancello della  Pharmacol, dove lavoravo, ancora pioveva, ma il peggio sembrava passato.  Vidi in fondo allo slargo Daniela che aveva già parcheggiato. Sotto un ombrellino rosso, cercava di evitare le pozzanghere dribblando pericolosamente sulle scarpe a tacco alto, per poi scomparire tra i cristalli dell’ingresso. Pensai di riuscire a controllare meglio tutte le ansie e le emozioni, che mi battevano alle tempie, simulando una nottata difficile. Appena la raggiunsi, mi guardò preoccupata e dritto in faccia con quegli occhi indifesi che mi avevano colpito fin dal primo giorno in cui me l’avevano presentata durante una pausa al caffè aziendale: - Ciao, amore! buongiorno. Ma che c’è? come stai? Non hai dormito bene?
 Aveva notato che la mia andatura era più claudicante del solito, lo sguardo più pensieroso. Lo spray nasale mi aiutò a distrarre la sua attenzione. -Ciao, Dani. Sì, ho dormito poco. Non respiro bene… Dai, ci vediamo dopo in mensa.
 La conoscevo ormai da qualche anno, non le avevo promesso niente, ma mi si era legata con dedizione e affetto non aspettandosi  nulla in cambio. Aveva superato i cinquanta e aveva ancora un bel corpo, oltre a tanta voglia di vivere. C’era stato un marito, c’erano state altre storie nella sua vita. Era una donna generosa, che aveva continuato a dare amore e a sperare. Non aveva mai fatto molte domande, sembrava intuire che ci doveva essere una storia un po’complicata alle mie spalle, ma rispettava i miei silenzi, il desiderio di  momenti di solitudine, le mie assenze senza racconti durante le ferie estive. Durante le serate con i colleghi al ristorante ci sedevamo accanto, poi la riaccompagnavo a casa. Mi piaceva ascoltare il suono della sua voce e la sua risata schietta che finiva con un sospiro come se non volesse strafare.  Qualche volta la sera veniva a trovarmi nel mio appartamento, più spesso mi capitava di cenare da lei e, quando succedeva, di solito mi fermavo per un paio d’ore a chiacchierare, guardare un film  e fare l’amore, e per tutti e due sembrava ogni volta come se fosse l’ultima. Sapeva che per me c’era una famiglia da qualche parte. Ricordo che fu lei a invitarmi a salire la prima volta:- Vieni, è ancora presto. Il tuo pappagallo stasera aspetterà. Sono sicura che non ti metterà il muso… Se non vuoi proprio bere, vorrà dire che ti preparerò una tisana!- Aveva un buon profumo e nella penombra dell’abitacolo della macchina avevo pensato per un attimo che fosse Marìa Concepciòn a posare la mano leggera sul mio braccio. Come aveva fatto a capire che quella sera mi sentivo più solo che mai?
Alla fine di quel mattino di febbraio, in cui Manlio Giacinti sembrò scomparire dalla mia vita per sempre, quando a pranzo me la trovai al fianco con il suo vassoio, avrei voluto stringermi a lei, abbandonarmi tra le sue braccia e trovare soltanto un po’ di requie. Quanto ancora dovevo pagare per le mie scelte sbagliate? Quanto per la mia vigliaccheria? -Dani, vieni da me stasera? Ceniamo a casa mia?, avevo bisogno di qualcuno. Avevo bisogno di lei. Come avrei fatto ad affrontare il ritorno a Via Gianturco quella sera? Avevo ricevuto a metà mattinata una telefonata dal portiere che mi aveva comunicato la notizia. Non era stato difficile simulare una qualche sorpresa ed esprimere un tiepido rammarico, ma quel corpo riverso a terra mi si confondeva in testa con altri corpi a terra di anni prima e le gocce nebulizzate di Kapparinol non sarebbero bastate a farmi respirare meglio. Insieme decidemmo che lei mi avrebbe seguito con la sua auto e avrebbe parcheggiato fuori del garage, come sempre. Forse anche io avrei fatto meglio a lasciar fuori la mia Punto. Chissà se la polizia aveva transennato, oltre alla zona del ritrovamento, anche le aree lì accanto? Continuai ad arrovellarmi per tutto il pomeriggio, fingendo di portare avanti il lavoro: ‘Avranno già chiesto ai vicini informazioni su di me, abitudini, frequentazioni... Purchè non risalgano ai tempi del liceo!. Ma allora ero Mauro. Mauro Lenzi, cittadino italiano, nato a Parma e residente a Roma. Ora sono un cittadino venezuelano, perito chimico, dipendente di un’associata della Pharmacol, qui, in questa città, a completare gli ultimi anni di lavoro nella sede italiana. Yo soy el señor Arcangeli, primo piano, primo portone a sinistra e …Cos’ altro aveva aggiunto Franco il portiere? Mi tornò subito in mente e mi si strinse la gola: - … e poi, domani mattina  hanno detto che dovremo presentarci tutti, io, lei egli altri condomini, al Commissariato di zona. Hanno lasciato un avviso.  Vogliono stabilire come è successo, ecc. ecc. Pare, così qualcuno ha detto, che Giacinti avesse ricevuto delle minacce… Mah! Qui sono tutti in agitazione  e la signora X si è sentita male.-  Ecco! Dunque, volevano vederci chiaro, ci avrebbero fatto domande, controllato documenti… No, non ce l’avrei mai fatta da solo.
Fu dolce quella sera Daniela a tentare di rallegrarmi con i suoi racconti, a cucinare al posto mio, a prendermi per mano e portarmi a letto, mentre Guaco taceva discretamente. Non ero stato granché come ospite- ero stato quasi sempre in silenzio- tanto meno come amante, stravolto come ero dall’angoscia. Non avevo un alibi. Ero fuggito via anche quella mattina. Ancora una fuga, un’altra. Mi convinsi che non avrei mai potuto smettere di fuggire. Le mani di Daniela erano dolci e forti, il suo corpo accogliente, la sua bocca pareva volesse darmi una nuova vita, ma no, neanche lei, però, poteva aiutarmi quella sera. Alla fine, le chiesi di andare via e di lasciarmi solo: -Perché non vuoi mai che rimanga qui da te a dormire? E poi perché ti preoccupi così tanto per questa storia? - Cosa avrei potuto risponderle?
Appena mi salutò e chiusi la porta dietro di lei, ripetei meccanicamente i rituali che la mia vita di fuggiasco e clandestino mi aveva insegnato a rispettare fedelmente, senza deroghe. Era la condanna che mi ero inflitto per poter espiare i miei peccati e poter tornare a vivere, godere senza sensi di colpa quello che non meritavo. Una vita normale. Perfino felice.
Marìa Concepciòn… odore di cannella e occhi stellati. Denti splendenti sulla pelle scura, sapeva di mare, di foresta, di libertà. Quanto mi mancava! Quando l’avevo incontrata a Maracaìbo, avevo capito subito che quello sarebbe stato il mio porto d’arrivo. Avevo così rubato avidamente quegli anni e quei baci, avevo morso le hallaca che le sue svelte mani confezionavano a casa e bevuto  la chica criolla. Mi ero finalmente fermato dopo tanto vagare; era finita la paura, non ricordavo neanche bene perché, come ero capitato fin laggiù e chi mi aveva aiutato. Mauro Lenzi, allora, era morto anche per me, scomparso come il suo passaporto. Riuscivo di nuovo dormire tra le braccia di una donna e a sognare. Quando poi, però, nacque Juan il passato aveva ricominciato a pulsarmi in testa. Non bastarono più le braccia di Marìa Concepciòn ad allontare gli incubi e i ricordi che riemergevano togliendomi ogni forza. Dall’ Italia venivano notizie di arresti, condanne, pentimenti. L’oceano che ci divideva, improvvisamente, non mi sembrava più cosi vasto. Come avrei potuto continuare a guardare mio figlio negli occhi?  Sandro non c’era più dal giorno dell’ultima azione del commando, gli altri due compagni erano stati catturati poco dopo e condannati. Quando Giacinti crepò, stavano ancora finendo di scontare la pena.
Quel maledetto giorno, in quel maledetto incrocio, non ci eravamo fermati all’alt. Ci avevano colpito alle gomme, avevamo sbandato e era seguito uno scontro a fuoco. Colpi secchi, come grandine su una lamiera. Uno…, due andarono a segno. Colpi secchi ripetuti. Senza sapere bene dove puntare, forse nessuno di noi. Poi Sandro a terra, bocconi. Anche uno di loro dall’altra parte. Due fantocci scuri che con una piroetta si erano accasciati  a terra ai lati opposti della strada,  come in un film, due macchie scomposte a terra, complementari. Non ero riuscito a coprire Sandro, il mio amico, il mio eroe. Avrei dovuto trascinarlo via, ma l’unica cosa che  volevo in quel momento era che ci fosse silenzio e spazio intorno a me. Mi sentivo soffocare e di nuovo stretto contro quel muro della scuola, ma stavolta le gambe avevano deciso per me. Io non ero un eroe, non lo ero mai stato. Io non ero riuscito ad aiutarlo e dopo un po’ mi accorsi di non sentire più finalmente il rumore degli spari, coperto come era dai suoni delle sirene di altre auto in arrivo e dal mio respiro pieno d’affanno. Anche la scena che percepivo attraverso gli occhi appannati era ormai lontana,  il rumore dei miei passi e dei rametti delle siepi spezzati al mio passaggio erano ora diventati l’unica colonna sonora.  Stavo scappando. Mi  allontanavo velocemente, fuggendo come una lepre per quella macchia in leggera salita. E continuai ancora a correre, correre, mentre il cielo diventava sempre più chiaro. Ora potevo sentire qualche uccello che fischiava e frullava via. Il latrato di un cane disperato in lontananza. Non ricordo neanche bene  né quando né dove mi fermai, prima di ritrovarmi in Venezuela.
Respiravo a fatica anche quella lunga notte di tanti anni dopo,  mentre mi rigiravo in inquieto nel letto in attesa della convocazione al Commissariato. Sentivo  la pesantezza e l’oscurità di quegli anni miopi, costellati di chiavi inglesi e P38, come se non il futuro, ma piuttosto il passato fosse ormai diventato incerto, nebbioso e pieno di dubbi. Sapevo che i miei genitori non ci erano più, ma mio fratello, chissà, se mi aveva perdonato? La mia indifferente impazienza li aveva cancellati tutti dalla mia vita già prima che fossi costretto a lasciare l’Italia. Volevo cambiare le cose in meglio e subito, ma avevo fatto il vuoto intorno a me.
 Alle 2.45, un rumore di sedia caduta a terra e di vetri rotti nell’appartamento di sopra bloccò per un momento tutto il rimuginare.  ‘Cos’è? Minotti si sarà addormentato davanti alla televisione come al solito, con il bicchiere pieno. Stanotte siamo parecchi a non dormire.  Mi aveva detto qualcosa a proposito di Giacinti, tempo fa. Magari ... chissà quanti altri avranno avuto un buon motivo per farlo fuori. E ora la ragazza  della Smart nera, eccola!. è appena tornata dal club dove balla. Che stronzo, la guardo come se… potrebbe essere mia figlia. Juàn ha più o meno la stessa età di quella ragazzina. Chissà se Juàn ha una donna? Quando potrò stargli accanto?
La sveglia del cellulare- impietosa!- interruppe un sonno faticosamente conquistato e affollato di pensieri, cose e persone. Fuori il cielo era livido e senza speranza e lo specchio di fronte al quale mi stavo radendo mi rimandò l’immagine di un vecchio con lo sguardo smarrito e la bocca serrata.’ Coraggio! È tempo di andare.’
[...]

(isabnic2013)


venerdì 15 novembre 2013

MICHELE ARCANGELI, primo piano, primo portone a sinistra. (4)

. L'ultimo incontro con l'Amministratore


Gli incontri con Giacinti, però, anche se a distanza, da quella sera in cui l’avevo riconosciuto, parvero intensificarsi e cominciarono a sembrarmi per nulla casuali. Ricominciai a sentire nei suoi confronti lo stesso odio di un tempo, quasi un sapore acido di vendetta, un grumo scuro che mi premeva alle tempie. Quell’uomo che mi aveva  separato da un amico, indebolito la povera gamba sinistra per sempre, segnato dolorosamente un periodo del passato, ora avrebbe potuto cancellarmi anche il futuro. Lui conosceva il mio vero nome, sapeva della mia amicizia con Sandro, forse avrebbe potuto intuire dell’altro e denunciarmi. Mancavano solo pochi mesi e sarei potuto tornare da Marìa Concepciòn e da mio figlio. Fino ad allora avevo immaginato che nessuno avrebbe potuto sospettare nulla, che avrei potuto mettere a tacere per sempre tutti i fantasmi che continuavano ancora a tormentarmi. Avevo pensato a tutto, così che noi avremmo avuto di che vivere e allo stesso tempo avrei potuto aiutare, in forma anonima, anche il figlio di Sandro. Se solo… Desiderai profondamente la morte di Giacinti, la sua scomparsa definitiva dalla mia vita, così che, alla fine, decisi di recuperare e tener pronta la mia vecchia pistola. Quella Walther P38 che da tempo non avevo più impugnato e che, da quando mi ero trasferito lì, tenevo nascosta in balcone. Mi ero illuso da tempo che avrei potuto non toccarla più per tutto il resto della vita. Ma pareva che non potesse andare così.
  Era sicuramente un fine settimana di gennaio, dunque appena un paio di settimane prima che il cadavere di Giacinti sarebbe stato ritrovato vicino all’archivio. Ricordo che le piante in balcone erano ancora coperte dai teli di protezione, quando decisi di recuperare quel pacchetto di plastica, ingrigito e rinforzato dal nastro adesivo. La mia memoria dolorosa, il mio senso di colpa straziante. Potevo stringerlo ancora tra le mani. No, non si era disciolto e non era nemmeno defluito via con l’acqua di innaffiatura. Era ancora lì dove l’avevo nascosto, sotto strati di carta, stoffa e plastica sporca del terriccio, sotto il quale avevo sepolto anche i tuberi di tulipano, in attesa della loro fioritura primaverile. Risistemai velocemente il vaso e posai sul tavolo del soggiorno quel lugubre pacchetto per aprirlo. Lo stesso odore di terra, come allora. Sotto gli strati di copertura che da anni lo avvolgevano, riapparve quel fusto in acciaio brunito. Estate del ’77. Non portavo ancora questi occhiali falsi, mi chiamavo ancora Mauro Lenzi,  nome di battaglia “Angelo”. Prime ore dell’alba, luce incerta. Insieme ad altri tre, a volto scoperto e a bordo di un auto rubata, in quella strada ancora poco frequentata tra l’autostrada e il litorale, come avrei potuto mai dimenticare?
     La Walther P38 era arrivata alla fine dell’addestramento, quando io e Sandro, ormai “compagno Michele”,  ci ritrovammo, dopo anni in cui ci eravamo persi di vista, militanti in clandestinità nella stessa organizzazione e poi, infine, in un paio di azioni di autofinanziamento. Qualcosa andò male, però, l’ultima volta. Non ci doveva essere quella pattuglia di carabinieri in attesa, a quell’ora, a quell’incrocio. Io sarei diventato, sui giornali del giorno dopo, il famoso quarto uomo del commando, famoso perché non identificato, sfuggito alle forze dell’ordine; una sagoma bianca, senza nome e, dopo più di trent’anni, ancora latitante nel condominio di via Gianturco. Se Manlio Giacinti mi aveva davvero riconosciuto, come sospettavo ogni giorno di più, sarebbe stato facile per lui ricostruire tutto il resto, tenermi in pugno, denunciarmi, ma –devo confessare- non avrei mai immaginato di vedere così presto il suo corpo riverso a terra senza vita.
  Erano le sette e un quarto di quel mercoledì di metà febbraio quando capii che non avrebbe potuto più farmi male. Tra breve Franco, il portiere, ne avrebbe scoperto il cadavere. Maledetto! Proprio qui dovevo rincontrarti!   Presto - mi dissi- prima che arrivi qualcuno e forse in archivio non c’è nessuno. Devo salire in macchina e andarmene subito al lavoro, come sempre, come se nulla fosse successo.                
 Mi chiedo ancora come riuscii a guidare fino a lì. La pioggia leggera che avevo incontrato uscendo dal garage era diventata man mano che lasciavo la città uno scroscio insistente e senza speranza, che cancellava il mondo al di là del nastro d’asfalto che percorrevo e la linea bianca, al centro della carreggiata, a tratti scompariva in apnea, prima che il braccetto del tergicristalli riuscisse a compiere il proprio lavoro di pulitura. Anche i pensieri si accumulavano a ondate alternandosi a momenti di vuoto. Mi venne in mente che l’avevo incontrato la sera prima mentre stava parlando con l’avvocato del quarto piano. Sembrava che avessi interrotto una conversazione di una certa importanza e ancora una volta mi ero sentito addosso il suo sguardo, anche più determinato del solito, quasi che dicesse: - Adesso non ho tempo. La prossima volta penserò anche a te.-
Non poteva che finire così.[...]

(isabnic 2013)

mercoledì 6 novembre 2013

MICHELE ARCANGELI, primo piano, primo portone a sinistra (3) di isabnic

Riprende il racconto di Michele Arcangeli, condomino del primo piano del palazzo in Via Gianturco.

3 . Michele ricorda e ha paura               

 - Ciao! Buonasera! Come va? Mi scusi tanto… Ehm, Manlio, devo parlarti. Ti chiamo più tardi…
Il tono era forse meno cordiale dei modi e più pressante, ma non ci feci tanto caso allora. Il fatto è che quel nome, quel nome pronunciato da Pratesi, mi aveva colpito come una staffilata e aveva cancellato tutto il resto. Alla fine lo avevo recuperato nella mia memoria.
‘Manlio! Manlio Giacinti. Ora ci sono. Ecco, dunque. - Un lampo infinitesimale lacerò il velo che mi impediva di vedere, ma cercai in tutti i modi di tenerlo nascosto, mentre frammenti di pensieri, ansie e ricordi mi affollarono la mente. 
‘ Mi ha riconosciuto, ne sono sicuro. Ancora non ricorda il mio nome, ma tra un po’ ricorderà anche il tempo e il luogo dove ci siamo incontrati. Manlio Giacinti! Fetente! io sì, invece, che so chi sei. Anche sotto tutto questo profumo e vestiti di buon taglio sei sempre la solita merda. Fascio e non solo. Spia, che godevi a far male. Chissà anche adesso in che giri ti trovi. Ti toglierei con piacere quel sorrisetto da stronzo. Sempre lo stesso. Come ho fatto a non incontrarlo finora?
Approfittai del momento per allontanarmi, seguito subito dopo da Pratesi, che continuò, meno vigoroso del solito, su per le scale verso casa sua, dopo un laconico buona sera e finalmente rientrai a casa.
Come al  solito mi bastò un solo sguardo per controllare che tutto fosse a posto come l’avevo lasciato al mattino. Sì, la casa era quella di sempre, almeno quella degli ultimi due anni. Tutto era come al solito. Anche quella sera. Nel grande soggiorno studio, su cui si affacciava la porta per la camera da letto e il bagno,  c’era il  tavolo piuttosto grande, e sempre un po’ disordinato, davanti ai finestroni che davano sul lungo balcone, pieno di piante, che curavo personalmente, quasi un balsamo per i miei affanni. L’ angolo cottura, forse spartano, ma adatto alle mie esigenze, e con qualche piatto da lavare nell’acquaio, rimaneva in penombra al lato della finestra, mentre dall’altra parte del tavolo troneggiava il trespolo-gabbia di Guaco.
 - Hola, Guaco, mi compañero!- lo salutai e mi lasciai cadere su una delle due poltrone chiare, lì dietro, semplici nella loro intelaiatura in legno e poco abituate a ricevere ospiti. Erano sistemate davanti alla piccola libreria bianca, dove i pochi libri che continuavo a portarmi dietro nelle mie peregrinazioni erano ora in casuale compagnia di soprammobili anonimi in dotazione della casa. Eppure quella sera mi sembrò che ci fosse qualcosa di malato alle solite pareti, dietro ai pochi soliti mobili, come ombre piene di rimproveri, mentre l’aria secca, a causa dei caloriferi in funzione, mi asciugava la bocca. Un sapore amaro che da lì sembrava impregnarmi tutto. La mia povera gamba sinistra mi doleva  per la stanchezza e la tensione. Mi affrettai a chiudere le serrande e le tende e non cenai nemmeno, perché la testa continuava a pulsarmi. Avrei forse fatto meglio a infilarmi sotto le coperte, ma l’ aver riconosciuto Giacinti e la paura che lui potesse avermi riconosciuto a sua volta mi avevano messo in uno stato di assoluta agitazione. Ansie e preoccupazioni mi si stringevano addosso mentre pensavo e ripensavo che avrei dovuto cambiare i miei piani, forse traslocare, forse cambiare casa prima possibile. O anticipare la partenza, rinunciare alla pensione che avrei maturato alla fine della primavera e poi scomparire. Lasciare l’Italia, stavolta per sempre. Intanto, da subito, avrei cercato di evitare in tutti i  modi di incontrarlo e contemporaneamente avrei accelerato i preparativi per una nuova vita.  Seduto al tavolo, sotto la lampada accesa che pendeva dal soffitto e davanti allo schermo del portatile, con la pagina lattiginosa di un nuovo file che sarebbe rimasto vuoto, mi scorreva il film di quegli anni lontani a cui da tempo non avevo più pensato. Quando avevo digitato il nome di Manlio Giacinti + amministratore condominio e lanciato la ricerca in rete erano subito comparsi un paio di articoli improbabili di giornali, almeno allora così mi sembrò, su un’operazione congiunta, appena conclusa, di Squadra Mobile, DIA e Commissariato di San….  Tredici arresti per organizzazione di un “megacondominio illegale”, tra quelli un certo M.Giacinti. Sicuramente un omonimo.  L’ altro articolo raccontava della denuncia sporta da una giovane donna a proposito di fatture false, bollette truccate e sottrazione indebita di immobile ai danni di una pensionata (forse una lontana parente), un procedimento ancora in corso in cui compariva come socio d’affari di M. Giacinti anche un notaio. ‘ Questo potrebbe anche essere lui -mi dissi- Un prepotente che si fa forte grazie a un gruppo di amici fidati, come allora.’ Su un sito che si occupava di “Consulenze del Lavoro”, compariva il suo nome, completo di indirizzi, recapiti telefonici, e preceduto dal doppio titolo Dott. Avv. Seguiva un invito: “ESPRIMI LA TUA OPINIONE, IL TUO COMMENTO”. Questo davvero no, meglio di no. Non avrei potuto farlo. Magari non era lui quell’amministratore disonesto dell’articolo, ma i ricordi riportavano in vita una persona decisamente poco limpida, un assoluto mascalzone.
 La mia conoscenza con Manlio Giacinti risaliva ai tempi delle scuole superiori. Frequentavamo lo stesso  liceo di Monteverde. Giacinti era più piccolo di me, almeno un anno, se non sbaglio,  ma oltre alla corsa campestre, in cui eravamo bravi tutti e due e dunque storici avversari nelle gare provinciali in cui rappresentavamo la scuola, non avevamo altre cose  in comune,  perché per il resto - famiglia, frequentazioni, gusti e scelte politiche- eravamo agli opposti.  
Non potei fare a meno di ripensare a quel giorno in cui era toccato a me il volantinaggio all’ingresso dei ginnasiali. Quasi quarant’anni prima. Un mattino rigido d’inverno davanti a scuola, mentre distribuivo volantini per una qualche assemblea non autorizzata. Ero appoggiato al cancello di metallo dell’istituto e i ragazzini del ginnasio mi passavano sotto il naso afferrando distrattamente i fogli ciclostilati, mentre si affrettavano a entrare tra richiami, saluti, ultimi tiri di sigaretta condivisa. Qualche ragazza, che forse mi aveva visto all’ultima Assemblea di Istituto sul palco dei rappresentanti di sezione o a presentare il nuovo gruppo di studio,  mi sorrideva timidamente. Da qualche tempo l’atmosfera nelle scuole era mutata e tutto sembrava anticipare altri e più grandi cambiamenti. Non mi accorsi nemmeno di quel  gruppo di quattro che, con Giacinti in mezzo, si avvicinavano minacciosi con le mazze di legno in mano. Riconobbi  soltanto dopo quel suo sorrisetto che risaltava sul solito montgomery  scuro.  Mi si misero intorno, mi strapparono i volantini dalle mani e cominciarono a spintonarmi via, gridandomi addosso. Mi ritrovai improvvisamente solo, il muro alle spalle e fu allora che presero a colpirmi sulle gambe. Ripetutamente. Con quelle mazze che sembravano cento. Quasi non riuscivo a urlare. Ero caduto come un sacco. Mi sembrò che mi avessero spezzato tutte e due le gambe e il dolore lancinante mi saliva a ondate mischiandosi alla paura e a un assoluto senso d’impotenza. Pensai che forse stavo per morire, che fosse finita per sempre. Se non fossero arrivati Sandro Micheli e gli altri compagni dell’ultimo anno, sarei davvero rimasto a terra. Loro riuscirono a ricacciarli e Giacinti perse anche qualche dente, prima che i bidelli avvertiti dai ginnasiali dessero l’allarme. La mia gamba sinistra da quel giorno non fu più la stessa, non  rappresentai più il mio liceo nelle gare e da allora a vincere fu soltanto Giacinti. Lui si assentò per qualche giorno, dopo i fatti, poi venimmo a sapere che la famiglia aveva denunciato Sandro, il quale fu espulso da scuola, e tutte le nostre manifestazioni di solidarietà furono vane. Persi un compagno, un amico- sia pure più grande di me- e il mio eroe personale nello stesso momento, perché Sandro mi aveva svelato un  mondo e con lui avevo condiviso in quegli anni letture, musica, pomeriggi al cinema e ideali, e in più, in quell’occasione, mi aveva anche salvato la vita. Sandro era già stato minacciato di espulsione perché si era sempre esposto in prima persona in tutte le lotte e le rivendicazioni, ma dopo questo episodio fu costretto a cambiare scuola o forse città e ci perdemmo di vista per un po’. Giacinti e io, invece, rimanemmo, continuammo a incontrarci e a odiarci per tutta la durata della scuola prima dell’ esame di maturità. Poi non ne seppi più nulla, né volli saperne. Ora, dopo tanti anni, temevo che di nuovo potesse farmi male. Se si fosse ricordato il mio nome, quello vero, intendo, avrebbe potuto denunciarmi o ricattarmi per sempre in cambio del suo silenzio.
 ‘Devo evitare di incontrarlo. Mancano solo tre mesi alla pensione, mancano solo tre mesi. Tre mesi e potrei sentirmi finalmente libero, libero da tutto’, continuavo a ripetermi. Poi tolsi il collegamento Internet, spensi il pc, controllai doverosamente le finestre e, prima di coprirlo per la notte, cercai di trovare un po’ di conforto con Guaco che nervosamente si muoveva su e giù per il trespolo sul quale era poggiato, e da cui aveva continuato a osservarmi per tutta la sera.   
- Vero, Guaco?- mi volsi verso di lui- Y tu también vuoi tornare a casa? Con migo y mi mujer. Y Juan… 
- JUAAN…Acooo! Yo soy yooooo
- Ssst! Silencio! Sì, anche tu Guaco. Buenas noches, amigo! Hasta mañana!
[...]

(isabnic2013)                                        

sabato 29 giugno 2013

MICHELE ARCANGELI, primo piano, primo portone a sinistra (2 di isabnic

              

2        Michele riconosce l’Amministratore

                   Mi era capitato di incontrare di nuovo Giacinti qualche tempo dopo al supermercato lì vicino, dove andavo una volta a settimana a far scorta di cibo. Non mi dispiaceva quel rituale, poi ero così abitudinario che ormai ero diventato velocissimo a riempire ogni volta il carrello con gli stessi prodotti, a parte qualche frutto di stagione. Daniela diceva che ero un monaco. Nessuna concessione a prelibatezze, primizie e cose raffinate. Niente alcool, se non qualche birra in pizzeria, e la spesa un atto dovuto da fare nel minor tempo possibile. In realtà, mi piacevano le zone franche come il supermercato, dove il contatto con gli altri è ridotto al minimo, dove ai cassieri che digitavano compulsivi sulle loro casse non interessava il mio nome o la mia faccia. Dietro i loro movimenti meccanici assaporavo un po’ di libertà.
               Ero arrivato alla fine del percorso, attraverso i banconi stracolmi di merci occhieggianti inutilmente- almeno per me- dentro confezioni multicolori e passando indenne attraverso aromi e odori, annunci di sconti eccezionali e musichette suadenti. Avevo scaricato i pochi prodotti che avevo scelto ben allineati sul nastro, come al solito, mentre aspettavo il mio turno, quando la mia attenzione fu letteralmente presa da un uomo che spingeva un carrello ricolmo di bottiglie qualche cassa più in là. Sembrava dirigersi verso il parcheggio e c’era una donna piuttosto elegante che lo seguiva parlandogli inascoltata. Probabilmente la moglie. Quel uomo aveva qualcosa di vagamente familiare, nel suo vestito di buona fattura, quel modo di camminare sicuro e strafottente, e quel guardarsi intorno come per controllare la scena e l’effetto che il suo passaggio aveva avuto sull’ ignaro pubblico di avventori e dipendenti del magazzino. Mi misi subito in allerta. Quando si volse, mi salutò con un cenno del capo e un abbozzo di sorriso.
                   Ma certo! L’amministratore del palazzo, l’uomo che avevo visto in guardiola. Anche stavolta avevo sentito il suo sguardo indugiare a lungo su di me. In quegli anni avevo imparato ad annusare il pericolo e quel uomo sembrava quasi conoscermi da tempo. Come aveva detto? Giacinti. Anche il nome non mi sembrava completamente nuovo. Risposi al saluto vagamente. La “moglie” di Giacinti doveva aver chiesto al “marito” chi fossi perché anche lei si volse a osservarmi.
                   Accelerai l’operazione di riempimento dei sacchetti, pagai mentre il cuore aumentava il ritmo dei battiti. ‘ Giacinti. L’ho già incontrato prima d’ora? Dove? Quando? In quale vita? Non è una persona limpida, lo sento. Mi inquieta. Devo stare attento, mi ero detto e continuai a ripeterlo nei giorni seguenti come un mantra.
                    Dopo di allora mi sembrò di incrociarlo sempre più spesso e ovunque. Solito sorriso. Da lontano. Facevo di tutto per evitare un incontro ravvicinato, ma  non poteva durare a lungo. E infatti avvenne un pomeriggio, al ritorno dal lavoro.
                    Per tutto il giorno mi aveva tormentato un mal di testa di sapore pre-influenzale e avevo staccato un po’ prima del solito. Doveva essere già autunno inoltrato, perché pur non essendo un’ora tarda, mentre guidavo verso casa, avevo visto scomparire le ultime luci nel cielo e il buio mangiare a poco a poco i lati della strada non  illuminati dai fari. Avevo, poi, parcheggiato l’auto nel garage, attento, come ormai era mia abitudine, a lasciarla pronta con il muso verso l’uscita. Quel misto di umidità, di carburante e pneumatici che impregnava i muri e il pavimento del locale mi colpì più di sempre. C’erano ancora poche auto, però, oltre ai soliti motorini dei ragazzi del secondo piano, accostati vicino al passaggio verso le scale. Troppo presto per i vicini. Dunque, non mi aspettavo certo di incontrare qualcuno e invece, mentre salivo i gradini verso l’ingresso principale, mancò poco che mi scontrassi con quel Giacinti che, pensieroso e con aria guardinga, stava dirigendosi  verso il suo archivio nel sottoscala. Istintivamente mi ritrassi, divenni un tutt’uno con lo zaino in cui portavo il pc, incollato alle spalle.
      - Salve! Come sta? Torna dal lavoro? Beato lei! Io ho ancora qualche scartoffia che mi aspetta, aveva subito detto stringendomi la mano e poi indicando alla mia destra la porta del locale che usava come ufficio-archivio.
     Risposi ai convenevoli, ma siccome incalzava con tutte quelle domande dal tono salottiero tentai di porre fine alla conversazione: -Sono tornato un po’ prima del solito stasera. Temo che l’influenza quest’anno non mi abbia risparmiato. O forse semplicemente un arrivo di raffreddore.
     E intanto la mano mi era corsa alla tasca dei pantaloni dove tenevo il mio fido spray nasale. Mi si era seccata la bocca e mi sembrava di respirare a fatica. Ma Giacinti non sembrava avere alcuna voglia di smettere; leggermente più alto di me, col suo corpo forte mi bloccava e mi impediva di continuare verso le scale mentre con quegli occhi scuri e puntuti, inquisitivi, quasi da faina, continuava a fissarmi in modo sfacciato. La luce a tempo dell’andito si era spenta  e lui l’aveva subito riaccesa.
-  Lavora molto distante da qui? -riprese, mentre il profumo aggressivo del suo dopobarba mi avvolgeva tra le spire.
Stavo pensando a come sbloccare la situazione quando fortunatamente dal garage arrivò  Pratesi, il commerciante del quarto piano, lo sbruffone con il SUV e  la moglie carina, ma con l’aria perennemente depressa. Sembravano amici lui e Giacinti  per i modi che usava, o perlomeno si intuiva una certa familiarità o un qualche interesse in comune tra i due, tuttavia quella sera Pratesi pareva meno aitante del solito. La sua bella faccia da quarantenne rampante era segnata da stanchezza o da qualche pensiero che l’ossessionava. Si illuminò brevemente  al momento dei saluti, per poi spegnersi dietro a un sospiro, come se non avesse più scampo:
- Ciao! Buonasera! Come va? Mi scusi tanto… Ehm, Manlio, devo parlarti. Ti chiamo più tardi…

Il tono era forse meno cordiale dei modi e più pressante, ma non ci feci tanto caso allora. Il fatto è che quel nome, quel nome pronunciato da Pratesi, mi aveva colpito come una staffilata e aveva cancellato tutto il resto. Alla fine lo avevo recuperato nella mia memoria. [...]

(isabnic2013)

giovedì 25 aprile 2013

MICHELE ARCANGELI, primo piano, primo portone a sinistra di isabnic

Riprende il racconto di Michele Arcangeli, condomino del primo piano del palazzo in Via Gianturco.

3 . Michele ricorda e ha paura               

 - Ciao! Buonasera! Come va? Mi scusi tanto… Ehm, Manlio, devo parlarti. Ti chiamo più tardi…
Il tono era forse meno cordiale dei modi e più pressante, ma non ci feci tanto caso allora. Il fatto è che quel nome, quel nome pronunciato da Pratesi, mi aveva colpito come una staffilata e aveva cancellato tutto il resto. Alla fine lo avevo recuperato nella mia memoria.
‘Manlio! Manlio Giacinti. Ora ci sono. Ecco, dunque. - Un lampo infinitesimale lacerò il velo che mi impediva di vedere, ma cercai in tutti i modi di tenerlo nascosto, mentre frammenti di pensieri, ansie e ricordi mi affollarono la mente. 
‘ Mi ha riconosciuto, ne sono sicuro. Ancora non ricorda il mio nome, ma tra un po’ ricorderà anche il tempo e il luogo dove ci siamo incontrati. Manlio Giacinti! Fetente! io sì, invece, che so chi sei. Anche sotto tutto questo profumo e vestiti di buon taglio sei sempre la solita merda. Fascio e non solo. Spia, che godevi a far male. Chissà anche adesso in che giri ti trovi. Ti toglierei con piacere quel sorrisetto da stronzo. Sempre lo stesso. Come ho fatto a non incontrarlo finora?
Approfittai del momento per allontanarmi, seguito subito dopo da Pratesi, che continuò, meno vigoroso del solito, su per le scale verso casa sua, dopo un laconico buona sera e finalmente rientrai a casa.
Come al  solito mi bastò un solo sguardo per controllare che tutto fosse a posto come l’avevo lasciato al mattino. Sì, la casa era quella di sempre, almeno quella degli ultimi due anni. Tutto era come al solito. Anche quella sera. Nel grande soggiorno studio, su cui si affacciava la porta per la camera da letto e il bagno,  c’era il  tavolo piuttosto grande, e sempre un po’ disordinato, davanti ai finestroni che davano sul lungo balcone, pieno di piante, che curavo personalmente, quasi un balsamo per i miei affanni. L’ angolo cottura, forse spartano, ma adatto alle mie esigenze, e con qualche piatto da lavare nell’acquaio, rimaneva in penombra al lato della finestra, mentre dall’altra parte del tavolo troneggiava il trespolo-gabbia di Guaco.
 - Hola, Guaco, mi compañero!- lo salutai e mi lasciai cadere su una delle due poltrone chiare, lì dietro, semplici nella loro intelaiatura in legno e poco abituate a ricevere ospiti. Erano sistemate davanti alla piccola libreria bianca, dove i pochi libri che continuavo a portarmi dietro nelle mie peregrinazioni erano ora in casuale compagnia di soprammobili anonimi in dotazione della casa. Eppure quella sera mi sembrò che ci fosse qualcosa di malato alle solite pareti, dietro ai pochi soliti mobili, come ombre piene di rimproveri, mentre l’aria secca, a causa dei caloriferi in funzione, mi asciugava la bocca. Un sapore amaro che da lì sembrava impregnarmi tutto. La mia povera gamba sinistra mi doleva  per la stanchezza e la tensione. Mi affrettai a chiudere le serrande e le tende e non cenai nemmeno, perché la testa continuava a pulsarmi. Avrei forse fatto meglio a infilarmi sotto le coperte, ma l’ aver riconosciuto Giacinti e la paura che lui potesse avermi riconosciuto a sua volta mi avevano messo in uno stato di assoluta agitazione. Ansie e preoccupazioni mi si stringevano addosso mentre pensavo e ripensavo che avrei dovuto cambiare i miei piani, forse traslocare, forse cambiare casa prima possibile. O anticipare la partenza, rinunciare alla pensione che avrei maturato alla fine della primavera e poi scomparire. Lasciare l’Italia, stavolta per sempre. Intanto, da subito, avrei cercato di evitare in tutti i  modi di incontrarlo e contemporaneamente avrei accelerato i preparativi per una nuova vita.  Seduto al tavolo, sotto la lampada accesa che pendeva dal soffitto e davanti allo schermo del portatile, con la pagina lattiginosa di un nuovo file che sarebbe rimasto vuoto, mi scorreva il film di quegli anni lontani a cui da tempo non avevo più pensato. Quando avevo digitato il nome di Manlio Giacinti + amministratore condominio e lanciato la ricerca in rete erano subito comparsi un paio di articoli improbabili di giornali, almeno allora così mi sembrò, su un’operazione congiunta, appena conclusa, di Squadra Mobile, DIA e Commissariato di San….  Tredici arresti per organizzazione di un “megacondominio illegale”, tra quelli un certo M.Giacinti. Sicuramente un omonimo.  L’ altro articolo raccontava della denuncia sporta da una giovane donna a proposito di fatture false, bollette truccate e sottrazione indebita di immobile ai danni di una pensionata (forse una lontana parente), un procedimento ancora in corso in cui compariva come socio d’affari di M. Giacinti anche un notaio. ‘ Questo potrebbe anche essere lui -mi dissi- Un prepotente che si fa forte grazie a un gruppo di amici fidati, come allora.’ Su un sito che si occupava di “Consulenze del Lavoro”, compariva il suo nome, completo di indirizzi, recapiti telefonici, e preceduto dal doppio titolo Dott. Avv. Seguiva un invito: “ESPRIMI LA TUA OPINIONE, IL TUO COMMENTO”. Questo davvero no, meglio di no. Non avrei potuto farlo. Magari non era lui quell’amministratore disonesto dell’articolo, ma i ricordi riportavano in vita una persona decisamente poco limpida, un assoluto mascalzone.
 La mia conoscenza con Manlio Giacinti risaliva ai tempi delle scuole superiori. Frequentavamo lo stesso  liceo di Monteverde. Giacinti era più piccolo di me, almeno un anno, se non sbaglio,  ma oltre alla corsa campestre, in cui eravamo bravi tutti e due e dunque storici avversari nelle gare provinciali in cui rappresentavamo la scuola, non avevamo altre cose  in comune,  perché per il resto - famiglia, frequentazioni, gusti e scelte politiche- eravamo agli opposti.  
Non potei fare a meno di ripensare a quel giorno in cui era toccato a me il volantinaggio all’ingresso dei ginnasiali. Quasi quarant’anni prima. Un mattino rigido d’inverno davanti a scuola, mentre distribuivo volantini per una qualche assemblea non autorizzata. Ero appoggiato al cancello di metallo dell’istituto e i ragazzini del ginnasio mi passavano sotto il naso afferrando distrattamente i fogli ciclostilati, mentre si affrettavano a entrare tra richiami, saluti, ultimi tiri di sigaretta condivisa. Qualche ragazza, che forse mi aveva visto all’ultima Assemblea di Istituto sul palco dei rappresentanti di sezione o a presentare il nuovo gruppo di studio,  mi sorrideva timidamente. Da qualche tempo l’atmosfera nelle scuole era mutata e tutto sembrava anticipare altri e più grandi cambiamenti. Non mi accorsi nemmeno di quel  gruppo di quattro che, con Giacinti in mezzo, si avvicinavano minacciosi con le mazze di legno in mano. Riconobbi  soltanto dopo quel suo sorrisetto che risaltava sul solito montgomery  scuro.  Mi si misero intorno, mi strapparono i volantini dalle mani e cominciarono a spintonarmi via, gridandomi addosso. Mi ritrovai improvvisamente solo, il muro alle spalle e fu allora che presero a colpirmi sulle gambe. Ripetutamente. Con quelle mazze che sembravano cento. Quasi non riuscivo a urlare. Ero caduto come un sacco. Mi sembrò che mi avessero spezzato tutte e due le gambe e il dolore lancinante mi saliva a ondate mischiandosi alla paura e a un assoluto senso d’impotenza. Pensai che forse stavo per morire, che fosse finita per sempre. Se non fossero arrivati Sandro Micheli e gli altri compagni dell’ultimo anno, sarei davvero rimasto a terra. Loro riuscirono a ricacciarli e Giacinti perse anche qualche dente, prima che i bidelli avvertiti dai ginnasiali dessero l’allarme. La mia gamba sinistra da quel giorno non fu più la stessa, non  rappresentai più il mio liceo nelle gare e da allora a vincere fu soltanto Giacinti. Lui si assentò per qualche giorno, dopo i fatti, poi venimmo a sapere che la famiglia aveva denunciato Sandro, il quale fu espulso da scuola, e tutte le nostre manifestazioni di solidarietà furono vane. Persi un compagno, un amico- sia pure più grande di me- e il mio eroe personale nello stesso momento, perché Sandro mi aveva svelato un  mondo e con lui avevo condiviso in quegli anni letture, musica, pomeriggi al cinema e ideali, e in più, in quell’occasione, mi aveva anche salvato la vita. Sandro era già stato minacciato di espulsione perché si era sempre esposto in prima persona in tutte le lotte e le rivendicazioni, ma dopo questo episodio fu costretto a cambiare scuola o forse città e ci perdemmo di vista per un po’. Giacinti e io, invece, rimanemmo, continuammo a incontrarci e a odiarci per tutta la durata della scuola prima dell’ esame di maturità. Poi non ne seppi più nulla, né volli saperne. Ora, dopo tanti anni, temevo che di nuovo potesse farmi male. Se si fosse ricordato il mio nome, quello vero, intendo, avrebbe potuto denunciarmi o ricattarmi per sempre in cambio del suo silenzio.
 ‘Devo evitare di incontrarlo. Mancano solo tre mesi alla pensione, mancano solo tre mesi. Tre mesi e potrei sentirmi finalmente libero, libero da tutto’, continuavo a ripetermi. Poi tolsi il collegamento Internet, spensi il pc, controllai doverosamente le finestre e, prima di coprirlo per la notte, cercai di trovare un po’ di conforto con Guaco che nervosamente si muoveva su e giù per il trespolo sul quale era poggiato, e da cui aveva continuato a osservarmi per tutta la sera.   
- Vero, Guaco?- mi volsi verso di lui- Y tu también vuoi tornare a casa? Con migo y mi mujer. Y Juan… 
- JUAAN…Acooo! Yo soy yooooo
- Ssst! Silencio! Sì, anche tu Guaco. Buenas noches, amigo! Hasta mañana!
[...]

(isabnic2013)                                        

domenica 6 novembre 2011

GUKURAHUNDI di isabnic (2011)










  • RIMEDIO ALLA SOLITUDINE  n°1

Il dottor Caprino sembrava  ripetere la lezione guardandomi con aria franca dritto negli occhi. Voleva essere certo che credessi alla sua preparazione e professionalità e, mentre parlava di statine, laboratori losangelani, malattie perniciose di amici o parenti, copriva attentamente con un foglio un piatto contenitore di fialette trasparenti, bianche o scure, sottili e cilindriche, messo  sul tavolino che ci separava. Eravamo seduti uno di fronte all’altra; più alto di me,  mi guardava con occhio indagatore mentre la curiosità mi spingeva a cogliere ogni minima possibilità di osservazione di quelle misteriose fialette.
Era arrivato in ritardo e, prima di questo rituale, si era a lungo scusato raccontando di parcheggi introvabili, di benzinai inesperti, di inevitabili infrazioni, di traffico in genere. Cercava complicità, ma, sia pure con un sorriso comprensivo, spiegai subito che le mie uniche esperienze di guida risalivano a trent’anni prima ed erano durate per un brevissimo periodo. Giravo con mezzi pubblici io, e spesso a piedi.
La fase iniziale stava cominciando a durare un po’ troppo nella sua inutilità; pensai che, forse, c’era qualche macchinario che doveva scaldarsi prima dell’uso, e che poi mi avrebbe fatto qualche domanda sulla mia vita, abitudini, acciacchi. Ma le uniche cose che mi chiese furono il nome, l’età (con commento benevolo) e cosa sapevo di quello che stava per fare. – Niente-, gli  avevo detto subito, ma ancora con l’intorpidimento da passaggio di stagione, nonostante l’ora di pilates appena conclusa, e con una certa confusione in testa, mentre mi davo dell’imbecille per esserci caduta un’altra volta e, per giunta, dietro pagamento anticipato di € 50,00.
Il luogo era un minuscolo spazio scarsamente illuminato, il retrobottega della graziosa erboristeria davanti alla palestra. L’avevo notata qualche anno prima e non mi aveva entusiasmato, poi durante quella primavera d’insoddisfazione c’ero entrata per chiedere qualcosa che potesse contrastare il gonfiore della caviglia destra e, perché no?, della mia pancia di donna abbandonata. Più che altro volevo prolungare l’effetto di carineria e affettuosità che respiravo al caffè  dove ci sedevamo a parlar di tutto con le quattro amiche attempate alla fine della lezione di pilates. Era raro che ci fosse qualcosa di molto personale, al massimo scambi di idee sui figli, per lo più sfoghi politici, racconti di vacanze, consigli di acquisti. Ma stavo bene e potevo così rimandare il ritorno a casa.
La giovane erborista, con un rassicurante camice bianco, non vendeva soltanto prodotti confezionati in modo accattivante, ma ascoltava comprensiva e con  attenzione, consigliava, prendeva da varie buste erbe e fiori essiccati, li pesava, li mischiava e ti restituiva una odorosissima bustina di carta con scritto a mano nomi delle piante, quantità e posologia. Nelle visite successive passava a consigliare sciroppi da diluire e da bere nell’arco di molte ore, avviandoti all’accettazione di un nuovo stile di vita fatto di privazioni e informazioni puntuali su eventuali diete e sane abitudini giornaliere.