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Il palazzo sul Viale Alberato è un contenitore illimitato di storie. E’ un contenitore però aperto, pieno di buchi sul tempo e sullo spazio. Le sue scale elicoidali, attraversate al centro dal rumoroso e oscillante ascensore, pulsano come un motore. Dietro le porte degli appartamenti vibra un’energia vitale trattenuta, ma pronta a tracimare. E’ quella incertezza tra l’andare e il rimanere, l’accogliere e il respingere, l’accettare e il negare che rende così difficile varcare quel portone in uscita e immettersi nel flusso naturale del viale.
In questa sospensione purgatoriale, qualche
volta la vita esterna entra comunque, autonomamente,
senza invito, in maniera violenta o subdola
dall’ingresso principale, anche in forma di piazzisti di aspirapolveri e
di contratti telefonici, di diffusori di
improbabili giornali rivoluzionari o riflessioni sul Vecchio Testamento, volontari
ecologici e parenti di malati gravissimi che raccolgono collette o adesioni. Non
si è mai saputo chi tra noi apra il portone, ma di fatto avviene.
L’ irruzione più sconvolgente fu
però, almeno per noi, quella che è avvenuta
in un afosissimo primo pomeriggio
d’inizio luglio di qualche anno fa, quando tornavo dagli esami di maturità. Mentre salutavo l’amica che mi aveva dato un
passaggio in macchina a casa, ci
accorgemmo quasi contemporaneamente che
in fondo al portone del palazzo c’era qualcuno, un essere umano dall’aspetto
inquietante. L’uomo, un sanrocco senza
cane salvifico accanto, peloso, sporco, ma soprattutto completamente nudo, suonava
disperato tutti i campanelli. Qualcuno, poi, aprì. L’uomo – seppi poi- era
salito per la scale, bussando ad ogni portone e urlando qualcosa di
incomprensibile. Mio marito, che era già tornato a casa, era riuscito, poi, a
convincerlo tornare sui suoi passi scendendo insieme a lui e dopo un po’ il sanrocco mi era passato davanti, con un paio di scoloriti pantaloncini da bagno, di
un incongruo scozzese sul rosa, che mio marito era riuscito a fargli indossare.
Lo vidi – quel sanrocco senza bastone da pellegrino- mentre scendeva qualche
passo davanti a lui, con lo sguardo mite, la bocca addolcita da un sorriso stupito e in
mano un mezzo filone di pane. E dopo
molti inviti gentili, spiegazioni dal tono paterno, finalmente era uscito dal
portone. Guardai il mio uomo con occhi nuovi quel giorno e, quando rientrammo
nel nostro appartamento accaldati, affamati, ci sentimmo in fondo anche
sollevati per essere riusciti a respingere quell’inquietante intrusione dal
basso, da laggiù… Chissà, forse anche il nostro sanrocco era una di quelle
anime perse, che non si sa da dove vengano e che d’inverno, avvolte in enormi cappotti
lisi, le gambe nude e incrostate di sporco, i capelli lanuginosi e quasi senza
colore, girano per tutto il quartiere, di solito il mercoledì mattina.
La sua, quella del sanrocco, fu l’irruzione
più sconvolgente per noi, ma questo valeva fino a poco tempo fa. Non
avremmo mai pensato, infatti, che qualcosa di nuovo e completamente sconosciuto
sarebbe, invece, un giorno, arrivato non
da lì, dal portone sul viale, ma da lassù. Finora i nuovi inquilini, gli
studenti annuali, le esotiche badanti, le attraenti studentesse straniere erano
tutti, tutti compreso il delirante e derelitto sanrocco, tutti erano entrati dal portone sul viale. Kan-do, no. Lui-lei era atterrato sul grande terrazzo
semi-abbandonato in cima al palazzo. Un essere venusiano – come presto ci
convincemmo che fosse- piuttosto abbronzato, con la faccia di terracotta e il
sorriso fisso. Fatto come noi: due occhi, due braccia, due gambe, etc., ma non
molto alto e abbastanza robusto. Non parlava la nostra lingua, anzi non parlava
per niente ad eccezione di qualche rumore gutturale che produceva quando
qualcuno arrivava e lo coglieva alla sprovvista. Non sentiva quando ti
avvicinavi o il rumore dei tuoi passi e quando ti rivolgevi a lui scandendo le
parole ti guardava sorridendo, quasi chiedendo scusa di esistere. Il fatto è
che non aveva orecchie, come ci accorgemmo in seguito, quando venne finalmente
il caldo e l’essere cominciò a
legarsi i lunghi capelli nerastri con un cordino dietro il collo. Sembrava un hippie, senza chopper e collanine. Un
mezzo, in realtà, ce l’aveva o meglio ce
lo doveva aver avuto- almeno così pensammo. Ora erano rottami accartocciati e
una macchia di qualcosa che sembrava olio scuro, vicino al casotto dei vecchi
serbatoi condominiali dell’acqua. Quando era arrivato? Da dove? Poi a qualcuno venne in mente che il giorno
prima, […] (isabnic, 2012)
(CONTINUA)
ottimo incipit
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