giovedì 21 giugno 2012

VENERE IN TRANSITO di isabnic (2012)


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Il palazzo sul Viale Alberato è un contenitore illimitato di storie. E’ un contenitore però aperto, pieno di buchi sul tempo e sullo spazio. Le sue scale elicoidali, attraversate al centro dal rumoroso e oscillante ascensore, pulsano come un motore. Dietro le porte degli appartamenti vibra un’energia vitale trattenuta, ma pronta a tracimare.  E’ quella incertezza tra l’andare e il rimanere, l’accogliere e il respingere, l’accettare e il negare che rende così difficile varcare quel portone in uscita e immettersi nel flusso naturale del viale.
    In questa sospensione purgatoriale, qualche volta la vita esterna entra comunque,  autonomamente, senza invito, in maniera violenta o subdola  dall’ingresso principale, anche in forma di piazzisti di aspirapolveri e di contratti telefonici,  di diffusori di improbabili giornali rivoluzionari o riflessioni sul Vecchio Testamento, volontari ecologici e parenti di malati gravissimi che raccolgono collette o adesioni. Non si è mai saputo chi tra noi apra il portone, ma di fatto avviene.
  L’ irruzione  più sconvolgente fu però, almeno per noi, quella che è avvenuta  in  un afosissimo primo pomeriggio d’inizio luglio di qualche anno fa, quando tornavo dagli esami di maturità.  Mentre salutavo l’amica che mi aveva dato un passaggio in macchina a casa,  ci accorgemmo quasi contemporaneamente che  in fondo al portone del palazzo  c’era qualcuno, un essere umano dall’aspetto inquietante.  L’uomo, un sanrocco senza cane salvifico accanto, peloso, sporco, ma soprattutto completamente nudo, suonava disperato tutti i campanelli. Qualcuno, poi, aprì. L’uomo – seppi poi- era salito per la scale, bussando ad ogni portone e urlando qualcosa di incomprensibile. Mio marito, che era già tornato a casa, era riuscito, poi, a convincerlo tornare sui suoi passi scendendo insieme a lui e dopo un po’  il sanrocco mi era passato davanti, con  un paio di scoloriti pantaloncini da bagno, di un incongruo scozzese sul rosa, che mio marito era riuscito a fargli indossare. Lo vidi – quel sanrocco senza bastone da pellegrino- mentre scendeva qualche passo davanti a lui, con lo sguardo mite,  la bocca addolcita da un sorriso stupito e in mano un mezzo filone di pane.  E dopo molti inviti gentili, spiegazioni dal tono paterno, finalmente era uscito dal portone. Guardai il mio uomo con occhi nuovi quel giorno e, quando rientrammo nel nostro appartamento accaldati, affamati, ci sentimmo in fondo anche sollevati per essere riusciti a respingere quell’inquietante intrusione dal basso, da laggiù… Chissà, forse anche il nostro sanrocco era una di quelle anime perse, che non si sa da dove vengano e  che d’inverno, avvolte in enormi cappotti lisi, le gambe nude e incrostate di sporco, i capelli lanuginosi e quasi senza colore, girano per tutto il quartiere, di solito il mercoledì mattina.
    La sua, quella del sanrocco,  fu l’irruzione più sconvolgente per noi, ma questo valeva fino a poco tempo fa. Non avremmo mai pensato, infatti, che qualcosa di nuovo e completamente sconosciuto sarebbe, invece,  un giorno, arrivato non da lì, dal portone sul viale, ma da lassù. Finora i nuovi inquilini, gli studenti annuali, le esotiche badanti, le attraenti studentesse straniere erano tutti, tutti compreso il delirante e derelitto sanrocco, tutti erano  entrati dal portone sul viale.  Kan-do, no. Lui-lei era atterrato sul grande terrazzo semi-abbandonato in cima al palazzo. Un essere venusiano – come presto ci convincemmo che fosse- piuttosto abbronzato, con la faccia di terracotta e il sorriso fisso. Fatto come noi: due occhi, due braccia, due gambe, etc., ma non molto alto e abbastanza robusto. Non parlava la nostra lingua, anzi non parlava per niente ad eccezione di qualche rumore gutturale che produceva quando qualcuno arrivava e lo coglieva alla sprovvista. Non sentiva quando ti avvicinavi o il rumore dei tuoi passi e quando ti rivolgevi a lui scandendo le parole ti guardava sorridendo, quasi chiedendo scusa di esistere. Il fatto è che non aveva orecchie, come ci accorgemmo in seguito, quando venne finalmente il caldo e l’essere cominciò a legarsi i lunghi capelli nerastri con un cordino dietro il collo. Sembrava un hippie, senza chopper e collanine.  Un mezzo, in realtà, ce l’aveva o  meglio ce lo doveva aver avuto- almeno così pensammo. Ora erano rottami accartocciati e una macchia di qualcosa che sembrava olio scuro, vicino al casotto dei vecchi serbatoi condominiali dell’acqua. Quando era arrivato? Da dove? Poi  a qualcuno venne in mente che il giorno prima, […] (isabnic, 2012)
(CONTINUA) 

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