28 ottobre 2014 Cinquantenario de “Il Segno”
E’ una di quelle occasioni alle quali
non si può mancare. Soprattutto se si è un addetto ai lavori. Soprattutto se si
è un addetto ai lavori alquanto stagionato. L’occasione è la celebrazione del cinquantenario della
galleria Il Segno, forse l’unica galleria storica romana ancora in attività e
per di più nello stesso luogo dove ha aperto i battenti nel lontano 1964, a
pochi metri dalla bizzarra e inquietante architettura borrominiana del
campanile e del tamburo della cupola di sant’Andrea delle Fratte.
In questi cinquant’anni, la galleria di
Angelica Savinio ha ospitato i nomi più straordinari dell’arte contemporanea,
in una sequenza che ha del leggendario e che annovera artisti come Man Ray,
Robert Rauschemberg, Cy Twombly, Lucio Fontana, Gastone Novelli, Andy Warhol,
Tancredi, Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri, Achille Perilli e perfino le
Corbusier e tanti altri che il solo elencarli fa tremare le vene ai polsi.
E’ una meravigliosa storia di arte e di
cultura quella de Il Segno, alla quale Roma deve essere grata, come in effetti
è, a giudicare dalla sfilata scintillante e mondana di personalità che, dalle
diciotto in poi, si susseguono e si intrattengono a conversare amabilmente,
rievocare, ripensare esperienze, compiere sintetici quanto lucidi e spiritosi
aggiornamenti di arte e di vita. Arrivano, spigliati e salottieri Alberto Arbasino, Lorenza
Trucchi, Guglielmo Gigliotti e naturalmente Angelica Savinio, applauditissima,
che ha lasciato alla figlia Francesa Antonini la gestione della resistentissima
galleria. Insomma,
la sequenza dei nomi di tutti i personaggi intervenuti oggi non è meno
fascinosa di quella degli artisti transitati in passato da questo spazio prestigioso,
tanto che si finisce per indugiare in una sorta di araldica cartografia di
identità e di volti, di critici e artisti, galleristi e intellettuali. E a questo punto voi mi chiederete certamente
: ma cosa diavolo c’è da vedere in questa serata straordinaria, dentro lo
spazio piccolo ma intenso di questo sacrario dell’arte?
Ma Nulla,
naturalmente. Nulla.
O meglio,
il Nulla sarebbe stato meglio, probabilmente, a parte il bisticcio.
Non ci
sono opere, è chiaro. E neppure fotografie rievocative, né documenti o
cataloghi d’epoca. Niente di tutto questoCi sono, invece, i nomi di tutti gli
artisti di ieri e di oggi, scritti sul bianco delle pareti presumibilmente da
alcuni giovani pittori, come sembra risultare da un video nel quale appunto si
vede una paziente, ispirata, scrittura di nomi, da parte di un pensoso
giovanotto.
Non si
può far altro che concludere, a questo punto, che il cinquantenario della
galleria ha preso forma nel più scatenato trionfo del nominalismo che si
potesse immaginare, con una suggestiva somiglianza con le ben note diatribe
scolastiche nelle quali ci si interrogava sulla effettiva esistenza degli
“universali”, così come ci si interroga adesso sulla effettiva consistenza
personale e fisica di quei nomi, sospettando che essi siano nient’altro che
delle medaglie appese al petto invecchiato della galleria, della quale sembrano
voler confermare tuttora l’esistenza.
E’ un’esistenza che viene spontaneo
revocare in dubbio, nonostante o forse proprio a causa dello sfrenato “name
dropping”, se soltanto si nota che le nuove leve della galleria, anzi i loro
nomi, sono un po’ furbescaemente accostati a quelli dei grandi del passato a
suggerire una sorta di pantheon nel quale, hegelianamente, tutti i pennelli
sono grigi. E’ un’idea malinconica e anche un po’ cinica, che però si fa fatica
a reprimere, se solo si guarda alla nuova linea della galleria che non è più
angelica e neppure di Angelica. Una linea che, nel proliferare dei fermenti più
strani e anche discutibili ma vitali che agitano la città, privilegia un tardo
realismo seriosamente sociale che ricorda un po’ la nuova figurazione degli
anni sessanta, la quale oltretutto, ai
suoi tempi, non era nuova per niente. (Filippo Davvero 2014)
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