Ecco l'inizio di "La persistenza". Namdig si presenta per raccontare la sua storia:
" Sono Namdig O’Connor, umano al 100%, irlandese per padre e orientale per madre. Erano tutti e due gran narratori di storie, ciascuno a modo suo: mio padre cantava romanze, vecchie ballate, cantava d’amore e di morte con una voce meravigliosa – almeno così dicevano in molti; mia madre, invece, disegnava mostri e mondi lontani che diventavano storie animate. Non sono mai stato così bravo come loro, e mi sono occupato d’altro, ma sono stato in questi ultimi anni più che testimone di qualcosa che vorrei raccontarvi perché parecchie cose, a pensarci bene, mi sembrano ancora oggi poco chiare e comprensibili.
Da qualche anno lavoravo sulla Luna e vivevo in una di quelle abitazioni in multiproprietà degli anni Sessanta, costruite in regulite e polveri da robot telecomandati, come andava in quel periodo. Non rappresentavano certo le costruzioni più moderne presenti nel mercato ma erano confortevoli e abbastanza vicini alla Stazione Lunar Grand Central, l’area più mondana che quel vecchio satellite grigiastro potesse offrire con quel via vai di arrivi e partenze verso destinazioni lontane. Da lassù, dalle mie finestre, era malinconico guardare la Terra, ridotta quasi a una bolla blu immobile per la rotazione sincrona, ma qualche volta poteva capitare di scorgere -addirittura! - la rotazione dei continenti attraverso lo schermo fluttuante delle nuvole. Prima o poi sarei tornato laggiù - mi dicevo- anche se la maggior parte della gente ne fuggiva via. Ci si sentiva isolati e depressi sulla Luna, e non ero il solo a provarlo: insomma, era un po’ come vivere in provincia. Tutte le comodità a portata di mano, ma lontano dalle megalopoli terrestri dove avevo vissuto prima, dal loro movimento, dal rumore, dalle infinite possibilità, all’adrenalina continuamente sollecitata mi sembrava di buttare via la vita. In realtà, le occasioni di divertimento e di compagnia non mancavano: i Seleniti erano tutti giovani e, per quanto mi era capitato di vedere e sperimentare, tutti maledettamente belli. Dovevano aver operato una certa selezione tra i Terrestri da inviare a popolare il satellite!
Mi sono sempre chiesto come dovevo apparire loro… No, non considerate la mia testa calva di adesso e gli occhi sigillati da metallo dietro le lenti scure: allora avevo ancora una folta chioma di capelli rossi ereditati da mio padre e gli occhi allungati di mia madre che mi davano un’aria stravagante, accompagnata da un generale disordine del vestiario. Il punto è che quando ci sono i periodi di gran lavoro, la chiusura e la consegna dei progetti faccio da sempre fatica a star dietro alla mia manutenzione. Lavorare sotto i robot-ingegneri del Team 2 mi produce ansia: meglio, molto meglio lavorare con i Terrestri con cui ci si può sempre accordare. Cosicché, quando mi avvisarono che sarebbe arrivata dalla Terra una microbiologa con la quale avrei dovuto lavorare, ne fui davvero lieto. [...]
" Sono Namdig O’Connor, umano al 100%, irlandese per padre e orientale per madre. Erano tutti e due gran narratori di storie, ciascuno a modo suo: mio padre cantava romanze, vecchie ballate, cantava d’amore e di morte con una voce meravigliosa – almeno così dicevano in molti; mia madre, invece, disegnava mostri e mondi lontani che diventavano storie animate. Non sono mai stato così bravo come loro, e mi sono occupato d’altro, ma sono stato in questi ultimi anni più che testimone di qualcosa che vorrei raccontarvi perché parecchie cose, a pensarci bene, mi sembrano ancora oggi poco chiare e comprensibili.
Da qualche anno lavoravo sulla Luna e vivevo in una di quelle abitazioni in multiproprietà degli anni Sessanta, costruite in regulite e polveri da robot telecomandati, come andava in quel periodo. Non rappresentavano certo le costruzioni più moderne presenti nel mercato ma erano confortevoli e abbastanza vicini alla Stazione Lunar Grand Central, l’area più mondana che quel vecchio satellite grigiastro potesse offrire con quel via vai di arrivi e partenze verso destinazioni lontane. Da lassù, dalle mie finestre, era malinconico guardare la Terra, ridotta quasi a una bolla blu immobile per la rotazione sincrona, ma qualche volta poteva capitare di scorgere -addirittura! - la rotazione dei continenti attraverso lo schermo fluttuante delle nuvole. Prima o poi sarei tornato laggiù - mi dicevo- anche se la maggior parte della gente ne fuggiva via. Ci si sentiva isolati e depressi sulla Luna, e non ero il solo a provarlo: insomma, era un po’ come vivere in provincia. Tutte le comodità a portata di mano, ma lontano dalle megalopoli terrestri dove avevo vissuto prima, dal loro movimento, dal rumore, dalle infinite possibilità, all’adrenalina continuamente sollecitata mi sembrava di buttare via la vita. In realtà, le occasioni di divertimento e di compagnia non mancavano: i Seleniti erano tutti giovani e, per quanto mi era capitato di vedere e sperimentare, tutti maledettamente belli. Dovevano aver operato una certa selezione tra i Terrestri da inviare a popolare il satellite!
Mi sono sempre chiesto come dovevo apparire loro… No, non considerate la mia testa calva di adesso e gli occhi sigillati da metallo dietro le lenti scure: allora avevo ancora una folta chioma di capelli rossi ereditati da mio padre e gli occhi allungati di mia madre che mi davano un’aria stravagante, accompagnata da un generale disordine del vestiario. Il punto è che quando ci sono i periodi di gran lavoro, la chiusura e la consegna dei progetti faccio da sempre fatica a star dietro alla mia manutenzione. Lavorare sotto i robot-ingegneri del Team 2 mi produce ansia: meglio, molto meglio lavorare con i Terrestri con cui ci si può sempre accordare. Cosicché, quando mi avvisarono che sarebbe arrivata dalla Terra una microbiologa con la quale avrei dovuto lavorare, ne fui davvero lieto. [...]
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